Leticia Ortiz vive nel cantone di Lago Agrio, è una matriarca di una delle comunità A’i Cofan presenti in Ecuador; ha tra i capelli una fascia che riporta la scritta “Francisco vive”. Francisco era suo marito e leader della comunità fino alla sua morte, nella primavera del 2023: la scritta sulla fascia intende mantenere vivo il suo impegno contro le estrazioni di petrolio nella regione amazzonica dell’Ecuador in cui vive. Qui, le popolazioni indigene manifestano da decenni il loro dissenso insieme ad altri membri della comunità che vive nella Provincia del Sucumbios. Il loro obiettivo è fermare quello che potrebbe essere inquadrato come un ecocidio e chiedere riparazione per i danni causati all’ambiente e alla salute umana dalle operazioni di estrazione gestite tra il 1964 e il 1992 dall'allora Texaco, poi acquistata dalla Chevron, che nella foresta ha lasciato 880 bacini e pozzi pieni di residui di idrocarburi, contaminando fiumi, torrenti e falde acquifere. A questo si aggiungono le fuoriuscite di petrolio dagli oleodotti e le circa 15 perdite al mese che fuoriescono dai tubi danneggiati e che vengono riparati male o con estrema lentezza. Una causa, quella contro la multinazionale, che va avanti da decenni ma che è ancora caratterizzata da una diffusa impunità.
Spostiamoci in Bolivia, e precisamente nel parco nazionale Madidi, un’area naturale protetta di 19.000 km², che si dice custodisca i segreti dell’Amazzonia (forse perfino l’El Dorado) ed è un patrimonio di biodiversità tra i più ricchi al mondo. In quest’esplosione di varietà di flora e fauna, vi è la caoba, una pianta che, se così chiamata, dice forse poco, ma dalla quale si ricava il mogano, materiale pregiatissimo che sul mercato occidentale ha un valore piuttosto elevato. Questa pianta ha attirato le attenzioni delle multinazionali che nel Madidi deforestano migliaia di ettari di terreno, per poi utilizzare quegli stessi terreni per le piantagioni di coca, da cui ricavare la ben nota sostanza, e adoperarli per il pascolo dei bestiami, dando vita a quel fenomeno che prende il nome di narcoganaderia.
Valeria Barbi, giornalista ambientale e naturalista esperta di biodiversità, durante il suo incontro mette sul tavolo la conoscenza appresa nei suoi viaggi, ed esposta nel suo libro “Che cos’è la biodiversità, oggi” (Edizioni Ambiente), ma soprattutto svariate storie raccolte durante un reportage sul campo che l’ha portata ad esplorare per 22 mesi il Nord, Centro e Sud America insieme al fotografo Davide Agati. Lo fa per aprirci gli occhi, per offrire immagini concrete delle conseguenze del colonialismo occidentale e della compromissione della biodiversità. Per gli europei, dove c’era una terra da conquistare, c’era anche un popolo da educare ai costumi occidentali.
Poi, dalla metà dell’Ottocento, come reazione alle rilevanti trasformazioni operate dall’uomo su ambienti naturali fino a quel momento intatti, si sviluppò negli Stati Uniti un movimento, filosofico prima ancora che scientifico, il cui obiettivo era sensibilizzare la pubblica opinione sull’importanza della natura per scopi diversi dal guadagno economico. I principali fautori di questo movimento (Ralph W. Emerson, Henry D. Thoreau, John Muir) consideravano la natura un tempio dove ammirare l’opera di Dio. Nacque, così, l’esigenza di conservare intatti vasti paesaggi naturali di particolare bellezza e nel 1872 fu fondato il primo parco nazionale, lo Yellowstone National Park. Si trattava della prima area protetta nel senso odierno: pubblica e dedicata a preservare nel tempo un ambiente naturale, proteggendolo dalle attività di trasformazione messe in opera dall’uomo.
Con il tempo, intere comunità di Nativi Americani furono sfrattate dalle loro terre ancestrali che dovevano essere trasformate in Parchi nazionali. È successo allo Yellowstone National Park, così come allo Yosemite dove i pochi Ahwahneechee rimasti dopo il tentativo di espropriazione, venivano costretti a servire i turisti e a mettere in scena umilianti “giornate indiane”. I visitatori volevano vedere gli Indiani dei film, e così gli Ahwahneechee erano costretti a vestirsi e a danzare come i fratelli delle Grandi Pianure. Se non lavoravano nel parco, venivano espulsi – e alla fine se ne andarono o morirono tutti. I loro ultimi villaggi furono ignobilmente e deliberatamente bruciati in una esercitazione antincendio nel 1969.
Situazioni che, purtroppo, non fanno parte solo del passato ma si ripresentano anche oggi, in Africa come in Asia, evidenziando i limiti di quella che viene spesso chiamata Conservazione Fortezza e che colpisce intere popolazioni ma anche specie considerate cultural keystone species, o specie dal valore culturale fondamentale per la sopravvivenza delle tradizioni delle popolazioni indigene (es: i bisonti o i caribù per i nativi del Nord America).
Da questa presa di coscienza nasce il Community-based conservation, una strategia volta al riconoscimento giuridico internazionale delle capacità delle comunità locali di ricostruzione e comprensione del territorio al fine di creare delle infrastrutture resilienti. L’obiettivo è di operare congiuntamente alle comunità coinvolgendole attivamente nel processo di miglioramento delle aree da loro abitate, ottenendo dei benefici che, guardando il problema con una lente più ampia, possono ripercuotersi anche nella risoluzione della crisi climatica.
Non bisogna cadere, però, nella trappola di un pensiero che vorrebbe attribuire a queste comunità le caratteristiche che Rousseau vedeva nel “buon selvaggio”. Le popolazioni indigene vivono, oggi, in un tempo sospeso tra le loro tradizioni ancestrali ed il desiderio di immergersi in un consumismo che associano a ricchezza. Ecco, dunque, la domanda scomoda: “sono, forse, le comunità indigene gli eroi di cui noi occidentali abbiamo bisogno?”.
Valeria Barbi non fornisce risposte e non dice quale sia la soluzione, però la sua strada per arrivarci è chiara: il riconoscimento del valore e del contributo delle comunità indigene nella conservazione della biodiversità non può prescindere dalla loro partecipazione attiva ai processi negoziali. Noi, dal canto nostro, dobbiamo coltivare la consapevolezza dell’impatto che hanno le nostre azioni dall’altra parte del mondo, trasformando la conoscenza in azione. Questo è il cuore del suo progetto personale, WANE - We Are Nature Expedition.