07 | 09 | 2025

Algoritmi e altre divinità domestiche

Il corpo come primo strumento, l’algoritmo come ultimo dio: Chiara Valerio riflette su passato e futuro delle interfacce invisibili.

Quando entra per la prima volta in casa sua un televisore, Chiara Valerio è una ragazzina. E, come spesso accade nei confronti delle cose nuove, la sua prima reazione è di diffidenza. Non verso l’apparecchio in sé, ma verso quell’oggetto arcano che lo accompagna: il telecomando. È proprio da lì che comincia, per lei, un percorso di osservazione del mondo, delle sue connessioni visibili e invisibili, e dei rapporti di causa-effetto che lo regolano. Perché, anche se 'la forza è la causa', come insegnano sia Landau che Star Wars, comprendere le cause resta difficile. Fraintenderle, invece, è facilissimo.

Studiando quello strumento, senza saperlo, aveva già intuito che tra le cose - visibili o invisibili - del mondo esistono relazioni, legami sottili che mettono in moto trasformazioni. Ogni gesto, ogni pressione su un tasto, ogni danza rituale, può produrre un effetto. Quale sia la vera causa, però, è tutt’altra questione.

La domanda che guida l’intervento di Chiara Valerio è semplice quanto spiazzante: «Che differenza c’è tra danzare per far piovere, e schiacciare un tasto per illuminare uno schermo?» Apparentemente, tutto. In fondo, però, forse nessuna. In entrambi i casi un corpo umano compie un gesto, invoca una risposta da un’entità invisibile: il cielo nel primo caso, un campo elettromagnetico nel secondo. La danza o la pressione di un tasto sono movimenti che partono da un bisogno, da un desiderio, e si affidano a un dispositivo - corporeo o tecnologico - per soddisfarlo.

Il punto, dice Valerio, è che ci stiamo avvicinando a un mondo in cui i dispositivi saranno sempre meno visibili, sempre più integrati nel corpo o nell’ambiente. Già ora gli oggetti fisici si stanno dissolvendo in astrazioni: gli hard disk vengono sostituiti da cloud, le carte di credito si smaterializzano in gesture contactless, i dispositivi 'si portano addosso'. Arriverà un tempo in cui il nostro corpo sarà l’unico vero dispositivo: un cenno del capo per cambiare canale, un battito di ciglia per abbassare le persiane. Torneremo - o forse stiamo già tornando - a 'danzare per far accadere le cose'.

E quando ciò accadrà, potremmo smettere di vedere l’interfaccia, potremmo illuderci di essere noi la causa diretta di ciò che accade. Fino a credere, pericolosamente, che rappresentazione e realtà coincidano. Eppure, ricorda Valerio, il linguaggio è sempre una sintesi imperfetta, uno strumento che usiamo per tentare di descrivere, o addirittura sostituire, il mondo. Lo scrive anche Fleur Jaeggy: «abbiamo immaginato parole per descrivere il mondo e per sostituirlo».

Se oggi il mondo ci appare animato dalla tecnologia, come un tempo lo era dagli dèi, il rischio è tornare a un pensiero magico, a un’interpretazione mistica dell’innovazione.

Ed è qui che interviene la scienza, con il suo metodo, le sue distinzioni, il suo rigore. Studiare le scienze, dice Valerio, non serve a capire tutto, ma a ricordarci costantemente che tutto non si può capire, che ci sono fenomeni che sfuggono, che vanno semplificati, ipotizzati, immaginati. Che l’invisibile, ciò che non vediamo, è in questo mondo, solo a scale che i nostri sensi non colgono: impulsi elettromagnetici, segnali, galassie, nanotecnologie.

E proprio qui Valerio cita Richard Feynman, che nel 1959 parlava al Caltech della possibilità di manipolare la materia a livello infinitesimale, aprendo la strada alla nanotecnologia. «There’s plenty of room at the bottom», diceva. C’è molto spazio laggiù. Ma per accedervi la tecnologia non basta, serve immaginazione. Perché il dispositivo più potente che abbiamo per avvicinarci alla realtà invisibile, per intuirne la struttura, o persino «per avvicinarsi a una persona fino a intuirne l’anima», è la nostra testa.

Con la sorella, racconta Valerio, era solita passare il tempo giocando a demo di videogiochi sul vecchio 286 del padre. I moti di esultanza attorno alla scrivania al conseguimento di un livello, restituivano la vittoria come un traguardo meritato per il tempo e la perseveranza impiegati nel battere quella strana macchina intelligente. È pensando alla dimensione di percorso dei videogiochi che sostiene che essi «hanno a che fare con il catechismo», perché entrambi, procedendo a livelli, promettono un premio - la soddisfazione della vittoria e (afferma con ironia) la santità dopo la cresima. «Le religioni procedono per quadri, come i videogiochi», aggiunge.

Il corpo è il nostro primo dispositivo, il mezzo con il quale scambiamo informazioni con le circostanze, percepiamo lo spazio che occupiamo. «Mentre lo penso e tengo in mano il mio smartphone, ricordo che una delle patologie più diffuse tra le persone in carcere è la miopia, per via dell’orizzonte corto». La perdita di prospettiva è una faccenda pratica, senza prospettiva non esiste la fine - è solo un’altra cosa che accade nell’eternità della ripetizione. È a questo che la nostra società sta andando incontro, con la sempre maggiore frammentazione del tempo in pillole. Valerio invita a fare attenzione, perché anche allargare le immagini sullo schermo dei nostri cellulari per vedere meglio, è un passo verso la mancanza di prospettiva. La macchina nasce per sottrarci a quell’angosciante ripetizione del gesto. «Questo è il motivo per cui “algoritmo” è l’ultimo nome che abbiamo attribuito alla grazia divina, è l’ultima forma di deresponsabilizzazione».

Tra danze della pioggia e click sullo schermo, Chiara Valerio ci ricorda che ciò che davvero ci distingue è la capacità di immaginare oltre l'interfaccia.