05 | 09 | 2025

Allenarsi a immaginare gli svincoli prima della catastrofe

Una lezione orizzontale con Matteo Meschiari sull’essere terrestri oggi

L’umanità non è caduta quando qualcuno ha mangiato una mela: è caduta quando qualcuno non ha mangiato un chicco di grano, l’ha seminato e ha scoperto che da quel singolo chicco ne potevano nascere altri trenta, e ha inventato il surplus alimentare. I popoli di cacciatori e raccoglitori prendevano tanto cibo quanto bastava: non esisteva l’idea accumulare il cibo, e quindi di accumulare potere. Diecimila anni fa, così, è cominciato il Neolitico: e secondo Matteo Meschiari ci siamo ancora dentro, abbiamo solo raffinato i nostri mezzi, fino all’estrattivismo e alla rapina. La curva demografica è iniziata a salire quel giorno, e non si è mai fermata. Pare che comincerà a scendere fra cinquant’anni, non prima di aver fatto considerevoli danni ulteriori.

Meschiari è un antropologo e un geografo, e parla fronteggiando il pubblico in un’aula universitaria. È una situazione riconoscibile, nella cui disposizione spaziale sono inscritte delle dinamiche di potere. Meschiari conosce molte nozioni e può impartirle, ma esiste un modo diverso di imparare: non ascoltando in silenzio, ma condividendo culture e punti di vista in cerchio. Il senso delle Lezioni orizzontali del Festival è proprio questo. Tanto più con un tema, quello del rapporto fra umanità e Terra, che tocca tutti e sempre più toccherà tutti, la conoscenza non può assomigliare, dice Meschiari, «a una traversata solitaria in mezzo all’Atlantico».

Il momento decisivo del cambiamento è cambiare le coscienze. «Io non so se in una quarantina di minuti qualcosa del genere potrà veramente accadere»: l’apertura di Meschiari è umile, ma non nasconde la speranza di un germe di messa in discussione.

L’input da cui parte è la differenza fra terrestri e umani, e il potenziale operativo del sostituire il secondo termine col primo. È una proposta che piace ai partecipanti, che subito colgono in essa il passo verso il superamento dell’antropocentrismo. Meschiari media, facilita; interviene a sua volta, col suo sapere particolare, ma sempre più gli “allievi” vanno avanti da sé.

Quasi subito da una persona del pubblico arriva l’intervento che mette in rapporto questa landness, o territà, con l’antispecismo. «Anzi» dice «mi sembra che vada anche oltre»: verso le piante, verso i paesaggi. Meschiari tocca con delicatezza la questione della carne, senza posizionarsi e senza chiedere posizionamenti espliciti dai partecipanti, ma chiede piuttosto di cambiare prospettiva e osservare le quote di dolore causate dal sistema-mondo attuale che sono sofferte non solo da molti umani, ma anche degli animali.

«Saremo d’accordo che il sistema capitalistico applicato alla produttività degli animali generi non solo eccesso di consumismo da parte nostra, ma anche dolore inferto a loro». E in dimensione di massa: il sistema dominante è violento, ma si sceglie di non vederlo. Con un meccanismo – nota una partecipante – di rimozione, che è la premessa della deresponsabilizzazione. Che è la ragione per cui è così difficile guardare i documentari sugli allevamenti intensivi, e per cui Meschiari consiglia ai suoi studenti di informarsi sul colore del pelo dell’animale che scelgono di mangiare, di non dimenticare la filiera. Andare oltre, verrebbe da aggiungere, il feticismo delle merci di cui parlava Marx, l’impressione che il prodotto sia apparso sullo scaffale così com’è, senza aver subito trasformazioni e, nel caso della bistecca al banco dei surgelati, senza essere stato qualcosa di vivo.

Vederci avviati a un vicolo cieco di cui noi stessi siamo causa, dall’originaria caduta del chicco di grano in poi, è una prospettiva tendenzialmente deprimente; ma deprimendosi non si cambiano le coscienze. E di sicuro non si riesce a dare supporto ai bambini e ai ragazzi, quelli che hanno più da perdere in questo vicolo cieco e che, cresciuti con l’immaginario pieno di scenari distopici, ne sentono di più l’angoscia. Intervengono sul tema alcune partecipanti: due insegnanti, una delle scuole medie superiori e una delle inferiori, e una psicologa che ha portato nelle scuole dei laboratori sull’ecoansia. Emerge un quadro che vede i giovani come molto attenti, non dotati di mezzi economici che garantiscano coerenza perfetta ai loro ideali; in conflitto con gli adulti che vedono come i responsabili di com’è fatto il mondo. Sofferenti di un malessere ecologico in senso lato, spesso hanno, racconta la psicologa, un immaginario naturale limitato. Sembra spesso mancare l’esperienza concreta, sensoriale, corporea della natura (qualsiasi cosa sia la natura). Sembra mancare, insomma, il piacere, che sarebbe il contraltare necessario per esercitare la speranza.

L’unico impulso finale che lascia Meschiari, tirando le somme, è: riflettiamo su come possiamo aumentare le quote di immaginazione. «Immaginare è come ballare: ognuno balla come può, ma tutti possono imparare a ballare un po’ meglio». Solo immaginando si può pensare a un piano B, a uno svincolo prima del disastro. Come hanno fatto gli ingegneri, che di recente hanno inventato una vite che nebulizza l’acqua dei lavandini e permette di risparmiare il 95% di acqua ogni volta che ci si lavano le mani.