05 | 09 | 2024

Catturare l'aria con un retino

Andrea Gentile e Giorgio Vasta ci conducono attraverso un itinerario di suggestioni e fantasmagorie

«A cosa penso?» Andrea Gentile sistema il microfono, saluta il pubblico con un sorriso stretto prima di entrare in medias res in un percorso di suggestioni letterarie, poetiche, musicali e cinematografiche. Il pubblico si abbandona gentilmente alla voce di Gentile che recita un racconto di Robert Walzer in cui la voce narrante si danna per il pensiero di una salsiccia. Ciò che è terribile è che non riesce a liberarsi dal pensiero che la salsiccia più succulenta e scricchiolante, ciò che prima possedeva tra le mani, è persa. E non gli verrà restituita. L’ha divorata con tanta fretta, con tanta brama, che ora non ha più modo che gli venga restituito il desiderio, l’appetito. Se non l’avesse mangiata con così tanta foga potrebbe ancora farla scricchiolare.

Il pubblico si guarda attorno alla ricerca di una comune sensazione di spaesamento, c’è chi annuisce e chi dubbioso piega la testa su un lato. Ciò a cui Gentile vuole avviarci è un sentiero fantasmatico di apparizioni e sparizioni, che ha un farsi stentoreo. La salsiccia evocata da Walzer non c‘è materialmente, l’ha mangiata senza neppure accorgersi che stesse sparendo, non godendosi la fame. Ciò che intende Andrea Gentile è che un’apparizione non è per forza qualcosa che appare, ma può essere anche qualcosa che muta all'interno di un tempo dove tutto ciò che abbiamo è impermanenza. Al centro, naturalmente, si trova la carne: è un primo tentativo di indagare un’apparizione quando essa stessa già si configura come qualcosa che non c’è più.

Decidiamo di fidarci e abbandonarci all’apparizione di suggestioni, di corrispondenze e di riverberi. Degli sfavillii. Questo manifestarsi e sparire – tema attorno a cui si concentra tutto l’incontro – è intrinseco di alcune espressioni idiomatiche che restituiscono perfettamente l’idea di qualcosa osservato di sbieco, con la coda dell’occhio, che a un secondo sguardo non c’è più. Giorgio Vasta continua dicendoci che il fantasma della concretizzazione è qualcosa che abbiamo sulla punta della lingua e che, in fondo, non è tanto dissimile dal discorso letterario: una continua tensione verso un qualcosa di inafferrabile. Lo so ma non lo saprei spiegare, allora adopero il linguaggio. Durante un attraversamento nel deserto alla ricerca degli spazi abbandonati, Vasta e Ramak Fazel, il fotografo che lo ha accompagnato nel progetto, sentono un magnetismo che li affascina. Ciò che è affascinante ha a che fare con la percezione della presenza: i due si addentrano in case abbandonate dove sono ancora presenti le vestigia del quotidiano. Delle buste con le bollette, il quotidiano adagiato sul tavolo, la sagome dei corpi sui letti. Si muovono in punta di piedi, con la cautela di chi sta materialmente assistendo a una sparizione attraverso le tracce.

Come Thom Yorke in How to disappear completely, anche Giorgio Vasta si muove fluttuando per una città come se fosse un fantasma.

That there

That's not me

I go

Where I please

I walk through walls

I float down the Liffey

(caricamento...)

Ciò che comprende a questo punto il pubblico presente a Santa Maria della Vittoria è che l’itinerario proposto cerca di evocare ciò che strutturalmente sfugge: entrambi stanno dando delle tracce. Come se fossero impronte su un terreno umido seguiamo le suggestioni dei due, che ci riconducono verso alcuni frammenti de Il mimetismo animale, libro del sociologo Roger Caillois in cui riflette della sparizione nel regno animale. Si tratta di un istinto di alcuni insetti e felini, come bruchi e gechi.

I go

Where I please

I walk through walls

I’m not here

La sparizione è una tecnica di adattamento che ha a che fare con l’evoluzione – come suggerisce il filosofo Baptiste Morizot ne Sulla pista animale, sparire e fingersi. E al lato opposto, cercare e scandagliare il terreno alla ricerca dei passi, astrarre e immaginare i movimenti alla ricerca di una presenza di qualcuno o qualcosa non è più lì – Vasta sorride citando Carlo Ginzburg – non è forse l’episteme di ciò che compie la letteratura?

«Prova a immaginarmi, se non mi immagini io non esisto» scriveva Vladimir Nabokov in Lolita. Ciò che viene espresso e che riappare più volte è l’idea che ci sia un nesso tra l’immaginare e il far comparire. La scrittura è il luogo in cui appare e scompare l’immagine. La letteratura è un continuo chinarsi, un contemplare qualcosa che non è più lì. In alcuni casi, forse, non lo è mai stato.

(caricamento...)

L'intervista di Giorgio Vasta con la redazione di Festivaletteratura

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