I manoscritti, nell’immaginario di Tommaso Braccini, sono associati all’immagine delle scialuppe, perché come loro hanno portato a riva qualcosa che abbiamo rischiato di perdere.
Non c’è nulla di scontato nel fatto che i testi classici, scritti migliaia di anni fa, siano arrivati fino a noi; hanno attraversato periodi problematici, in cui la fatica, il tempo e la spesa che occorrevano per un singolo manoscritto costringeva a una necessaria selezione del materiale di cui si voleva mantenere traccia: questa selezione avveniva a seconda dell’interesse che determinati testi suscitavano fra gli intellettuali, e la maggior parte di ciò che ci è poi arrivato era utilizzato in ambiente scolastico, a parte rari casi.
Un esempio sono gli Inni Omerici, componimenti discretamente diffusi attribuiti ad Omero e composti in un’epoca posteriore all’Iliade e all’Odissea, che aprivano celebrazioni e feste in onore delle divinità. A volte erano brevi, altre volte erano narrativi e avevano un valore mitologico più alto.
I primi manoscritti risalgono al Quattrocento, fatto singolare: fino a quel momento infatti un solo manoscritto era conservato a Costantinopoli. Le raccolte che ritroviamo in questi libri sono da attribuire a Proclo, uno degli ultimi scolarchi dell’Accademia platonica di Atene, per il quale il platonismo aveva assunto un carattere religioso e magico. Nel Quattrocento, Giorgio Gemisto Pletone, filosofo attivo a Bisanzio, lancia il platonismo in Italia, rimettendo in circolazione presso i suoi allievi gli Inni Omerici come elemento religioso, salvandoli dall’oblio.
Platone era percepito come un’alternativa al cristianesimo anche a causa della presenza di miti nei suoi dialoghi; in particolare il mito di Er, nella Repubblica, che racconta di una risurrezione a tutti gli effetti, si presenta come un binario parallelo al cristianesimo. I suoi testi vengono salvati sull’onda neoplatonica di Pletone. Anche Apuleio, autore delle Metamorfosi, era ritenuto un filosofo neoplatonico e dunque bollato come mistico. Fino al 1070 era rimasta una sola copia della sua opera, ma, grazie alla menzione che ne fa Sant’Agostino nel De Civitate Dei, alcuni monaci sono riusciti a riprodurre altre copie di questo testo, salvandolo. Infine, molti manoscritti furono tramandati grazie al libro scritto da Martin Delrio, il Disquisitionum Magicarum, nel quale il gesuita raccomandava di salvare questi testi per il loro valore come testimonianza demoniaca.