06 | 09 | 2025

Curare il disagio coloniale

Guardare al processo di decolonizzazione in modo multiforme e intersezionale

«Non è vera libertà, è come un cane legato ad un guinzaglio molto elastico: può andare lontano, ma non appena proverà a divincolarsi si accorgerà di non essere libero». Con questa metafora il sociologo e scrittore Elgas, all’anagrafe El Hadj Souleymane Gassama, descrive i rapporti che intercorrono tra le popolazioni dei Paesi ex colonizzati ed ex colonizzatori.

Quando cercano di emanciparsi e portare aventi la lotta decoloniale, le persone razzializzate sono costrette a confrontarsi con una struttura suprematista, in primo luogo attraverso la lingua. Da qui, il disagio coloniale di cui l’autore parla insieme a Leila Belhadj Mohamed. Un disagio, questo, che dà vita a un sentimento di disprezzo verso tutto ciò che rappresenta l’Occidente, nel tentativo di contrapporsi all’esaltazione dell’opera di questa parte del mondo. Le due spinte – quella che esalta l’Occidente e quella che rifiuta ogni sua manifestazione – perdono entrambe di vista la complessità, tese a creare una narrazione unidimensionale in cui tutto assume solo i colori del bianco o del nero.

Questa purezza che viene ricercata tuttavia non è che un’illusione e risulta controproducente nel curare il disagio coloniale. Al contrario, creare un’identità molteplice e multiculturale sarebbe utile a questo proposito.

Guardando agli ultimi decenni, ci si accorge che i governi dei Paesi che hanno subito la colonizzazione francese, soprattutto quelli del Sahel, stringono accordi con Russia e Cina, si pensi agli Africa Corps per il primo caso e al fenomeno del land grabbing per il secondo. Queste azioni, concepite in ottica antifrancese, non raggiungono l’obiettivo di emancipazione che si prefiggono, anzi contribuiscono a creare instabilità e corruzione all’interno dei Paesi coinvolti. Secondo Elgas bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che gli stessi governi africani sono responsabili di alcune problematiche presenti sul loro territorio. Questo non significa che le colpe siano da distribuirsi in ugual misura tra Francia e Paesi colonizzati, l’autore ci tiene a specificarlo, ma in quanto intellettuale ritiene sia fondamentale guardare al problema in un’ottica che possa comprendere la complessità.

Osservare i Paesi africani nella loro interezza significa anche riconoscere la presenza di elementi che sono stati capaci di resistere al dominio e alla sopraffazione (ad esempio le lingue indigene, i calendari) e che appartengono alla dimensione che Elgas definisce dell’«incoloniabile». Decoloniale e incoloniale sono due concetti differenti, che operano anche in modo diverso. Se la decolonizzazione è un orizzonte, un processo costante che non prevede un punto di arrivo, l’incolonizzazione mira a mettere in luce una resistenza che già esiste ed è sempre esistita.

Questi due processi avvengono sia nei Paesi africani che in quelli coloniali, dove i corpi delle persone razzializzate devono fare i conti con l’eredità suprematista delle strutture in cui vivono. In Europa, l’identità di persona razzializzata si sovrappone ad altre problematiche, prima tra tutte quella della sessualità. L’ipersessualizzazione dei corpi non bianchi porta questi ultimi ad entrare in crisi rispetto al mondo affettivo, come Elgas racconta nel suo Maschio nero.

Maschio nero è un libro che parla di decostruzione di stereotipi patriarcali, a partire dalla storia di un uomo nero appunto, ma estendibile a quella di uomini di qualsiasi background culturale.

Elgas sottolinea come non esista un luogo sulla terra in cui la parità sia stata raggiunta, in cui le donne e gli uomini possano dirsi liberi e libere dalle aspettative legate al genere. Proprio per questo bisogna riconoscere il sessismo presente anche nelle società africane, unendo la lotta decoloniale a quella antipatriarcale, accomunate alla base dagli stessi valori.