Con Geopolitica dell’intelligenza artificiale, Alessandro Aresu scardina la retorica futuristica che circonda l’IA, restituendola come un campo di forze costituito da infrastrutture – server, cavi, centri di calcolo – oltre che di capitali e conflitti politici. Lungi dal cedere all’incantamento tecnologico che domina il dibattito pubblico, Aresu legge l'intelligenza artificiale come macchina di potere prima ancora che come macchina intelligente.
Il libro non è un compendio divulgativo né un prontuario tecnico: è una mappa critica. Aresu segue le linee di faglia che attraversano Stati, corporazioni, filiere industriali, mostrando come l’IA si sia fatta terreno di conflitto e di rappresentazione. Se l’intelligenza artificiale ci viene venduta come promessa di futuro, qui diventa piuttosto specchio delle asimmetrie del presente: chi ha accesso alle risorse di calcolo, chi controlla i flussi di dati, chi impone gli standard globali.
Presentato a Festivaletteratura in dialogo con Cesare Alemanni, il saggio si colloca dentro un discorso più ampio sulla crisi delle narrazioni tecnologiche e sul loro potere di plasmare l’immaginario politico. Ne emerge un confronto serrato tra due voci che condividono la stessa urgenza: leggere l’IA come dispositivo materiale e simbolico insieme. La rivoluzione digitale è un ecosistema di miniere, fabbriche, server farm, reti elettriche. ChatGPT non nasce a San Francisco, ma affonda le sue radici nell’Iowa delle cave di silicio, nei chip lavorati a Taiwan, nei cavi transoceanici che tengono insieme la connessione. Dietro ogni algoritmo c’è la geografia delle imprese, delle catene industriali e delle filiere del capitale. Ma c’è anche la geografia del talento e della forza lavoro: elettricisti, idraulici, tecnici che rendono possibile il raffreddamento dei server; ricercatori provenienti dall’India e dalla Cina. L’intelligenza artificiale è il prodotto di questo intreccio globale di competenze e infrastrutture, non di un atto creativo isolato.
È una competizione tecnologica complessiva per conquistare la cima delle filiere in un mondo sempre più post-globale: gli oggetti esistono davvero. Non tutti gli attori, naturalmente, apportano lo stesso valore — uno smartphone assemblato in Cina contiene chip, design e brevetti provenienti prevalentemente da Corea del Sud, Taiwan e Stati Uniti — e le trasformazioni produttive non sono lineari ma soggette a strattoni politici, controlli alle esportazioni e politiche industriali che possono riallineare rapidamente posizioni e vantaggi competitivi.
Un esempio emblematico è la strategia cinese Made in China 2025. Lanciata nel 2015, ha fissato l’obiettivo di far salire la Cina nella catena del valore in settori come semiconduttori, robotica, aerospazio e tecnologie pulite. Aresu ricostruisce come questa traiettoria abbia trasformato la Cina nel laboratorio più avanzato di robotica industriale e in un nodo essenziale della catena del valore. Mosse come l’acquisizione di KUKA da parte del gruppo Midea (operazione iniziata nel 2016) mostrano come capitali e politiche industriali siano stati impiegati per internazionalizzare competenze e capacità produttiva. Al tempo stesso, la competizione globale non è solo industriale, ma anche finanziaria e regolatoria: i mercati azionari statunitensi restano di gran lunga i più rilevanti per capitalizzazione e negli ultimi anni Washington ha introdotto restrizioni ed export controls mirati a limitare il trasferimento di tecnologie avanzate verso la Cina.
Per Aresu, la sfida non è più solo tra Stati ma dentro la complessità delle filiere ed è proprio questa interdipendenza a rendere ogni scossone politico — dazi, controlli all’export, conflitti commerciali — un terremoto per l’intero ecosistema. Ogni oggetto, ogni brevetto, ogni algoritmo racconta una battaglia di posizioni. Le restrizioni americane all’export di semiconduttori, spiega Aresu, vanno lette come parte di una “nebbia di guerra” economica: misure tecniche che diventano narrazioni strategiche, segnali lanciati più al mercato che ai governi. Al tempo stesso, il libro mostra come la Cina rimanga protagonista delle catene globali: un punto cruciale, sottolinea Aresu, è il ruolo del capitale umano. Con oltre 270.000 studenti cinesi negli Stati Uniti ogni anno, la competizione si gioca anche sulle traiettorie della conoscenza. Aresu non riduce il dato a sospetto di spionaggio — come fanno talvolta le agenzie di intelligence — ma lo legge come sintomo di una battaglia per attrarre e trattenere talenti. Se gli USA dovessero rinunciare a questo flusso, a beneficiarne sarebbero la Cina e l’India.
Aresu ci ricorda che l’intelligenza artificiale non è mai neutra, né semplicemente “digitale”: è trama di infrastrutture, intreccio di filiere, dispositivo di potere e narrazione. Leggere l’IA significa leggere la geografia dei capitali, il destino dei talenti, le tensioni tra Stati e aziende. In un mondo sempre più post-globale, comprendere queste dinamiche non è solo questione tecnica, ma culturale: è capire chi scrive la storia dei nostri oggetti, delle nostre informazioni, delle nostre aspettative. Geopolitica dell’intelligenza artificiale, in ciò, cerca di fornire degli strumenti critici per decifrare un presente già modellato dalle macchine — e dai poteri che le muovono.