«Essere la voce di chi non ha voce»: ricorda così, a braccio, una citazione dalle Lezioni americane di Calvino, Ali Smith, scrittrice scozzese, che si dice innamorata del suono della lingua italiana e delle Metamorfosi di Ovidio, quando le si chiede del mestiere dello scrivere.
Tutto, attraverso il caleidoscopio di immagini ed idee che si sommano nel suo intervento, riporta alla centralità dell’essere umani: non un novello umanesimo che mette al centro l’uomo, ma l’umanità nella sua capacità di connessione con ciò che la circonda, nel suo essere sociale per natura, nel suo tramandare storie per continuare a vivere.
«Ho deciso di fare la scrittrice perché potevo» dice, con la sua semplicità divertita, e con il suo sguardo tagliente: «è difficile, ma è come l’amore, quando lo fai il tempo scompare. Ed è una collezione di coincidenze. Del resto, cosa sono le coincidenze, se non l’incontro tra due cose? O un dialogo: l’incontro di due persone, che è fonte della vita, come diceva la scrittrice Grace Paley».
A partire dall’incontro con la realtà, e con le sue coincidenze, ha lavorato anche su Gliff, il suo ultimo romanzo, che potrebbe essere interpretato come una distopia, ma, racconta Smith: «non esiste un romanzo distopico. Tutto quello che è scritto viene dal nostro tempo, passa attraverso il corpo dello scrittore e del romanzo. Quello che descrivo nel mio libro, che ho finito nel 2024, probabilmente stava accadendo a qualcuno da qualche parte. Tranne la macchina che traccia segni rossi attorno a cose e persone, quella l’ho inventata io. Ma chissà, magari da qualche parte nel mondo…».
Forse, la macchina che esclude le persone e che le fa rimuovere, immaginata per il libro, parte proprio da echi di esperienze con diverse parti del mondo – dai migranti alla ricerca di un lasciapassare per l’Europa a Tangeri e Rabat nel 2005, al progetto Refugee tales, che riprende le storie di rifugiati in Regno Unito – nasce la consapevolezza che negli anni la de-umanizzazione dell’altro ha raggiunto livelli che non sembravano immaginabili. Per questo in Gliff c’è la categoria dei “non verificabili”, di coloro che non hanno documenti: «chiunque di noi potrebbe essere un unverified, è così semplice perdere il passaporto. Ma noi non siamo un pezzo di carta: siamo complessi, multipli, stratificati». Per questo – aggiunge poi – quella dei rifugiati di Refugee tales è una storia a lieto fine: perché la loro storia non è andata persa.
«Perché umanizziamo le macchine e de-umanizziamo le persone?» si chiede Ali Smith. È una disconnessione del mondo contemporaneo: dare un nome a una macchina e non riconoscere chi ha un’anima, una storia. Vivere immersi nella tecnologia che migliora costantemente e, allo stesso tempo, perdere la connessione con l’umano potrebbe essere un’esperienza magnifica e spaventosa insieme: «ma poiché ci scontriamo con una società che ci vuole superficiali, a scrollare e scrollare attraverso ogni cosa che appare su uno schermo, perdiamo la capacità di spaventarci. Di ricordarci che uno schermo è la barriera che si mette tra una persona e la realtà. È una divisione».
Questo ci riporta di nuovo al nodo centrale: l’umanità con un’anima («mostrami una macchina che abbia un’anima!”) e con le sue storie. «Le storie sono parte dell’umanità, sono un regalo che dura da sempre, e sono plurali, perché sono il contrario della divisione: sono ciò che ci tiene insieme».
Per questo, Smith riesce a raccontare il presente nel presente, attraverso una scrittura che ha il ritmo di una musica o di una danza, senza una necessità di scappare da una contemporaneità sempre più crudele: il “libro sorella” (così lo definisce Smith) di Gliff, che sarà pubblicato in futuro, è quindi «dedicato ai giornalisti che raccolgono storie di luoghi dove non potrebbero andare a raccoglierle. È una continuazione della parabola che si trova in un passaggio di Gliff, il cui senso è che puoi uccidere l’uomo ma non la sua umanità, che conosce la verità, la cerca e la difende. È accaduto lo stesso con mio padre, che non ci ha mai raccontato gli orrori dell’ultima guerra; poi improvvisamente l’ha raccontato a un nipotino di 10 anni, e ora la sua storia vive in me e nel nipote, e così continuerà a esistere».
Ma come onorare le storie, nel loro continuare ad esistere? «Se usassimo come moneta il linguaggio, scopriremmo quanto siamo ricchi» dice Smith, che è arrivata al titolo del libro proprio attraverso una coincidenza: Gliff era vicina alla parola Gliph, ma aveva almeno tre pagine in più di significati. Una parola che vuol dire tutto e vuol dire niente, in una storia in cui si rischia di essere tutto o nessuno, vista attraverso l’innocenza delle due giovani protagoniste. Vista attraverso lo sguardo di un’autrice che racconta «come una regista che gira in soggettiva» (dice Gaia Manzini, introducendola), e di un’autrice i cui occhi taglienti incontrano parole e immagini nel buio di un mondo apparentemente senza speranza. Ma ancora ricco di storie che attendono la loro stagione per essere raccolte e narrate.