05 | 09 | 2025

Donne, veleni e ribellione nella Roma del Seicento

Marcello Bortolato, Simona Feci e Manuela Soldi offrono un assaggio dell' “acquetta di Giulia” e delle sue conseguenze giudiziarie

Roma, luglio 1659. È nella capitale di Papa Alessandro VII che, nascosta agli occhi della gente, una rete di donne si dà al traffico di una sostanza incolore e inodore, la cosiddetta “acquetta di Giulia”. Simona Feci, guidata dalle riflessioni di Manuela Soldi, ci accompagna alla scoperta di un processo segretamente teatrale, analizzato e attualizzato grazie alla lettura del magistrato di sorveglianza Marcello Bortolato.

Nella storia del mondo, numerosi sono gli episodi di donne venefiche: dalla Locusta del I secolo d.C. alla Zsuzsanna Olàh degli anni venti del Novecento. Nella Roma del diciassettesimo secolo, però, donne come Girolama Spana sembrano mosse da un desiderio di uguaglianza, da quella che sembra un’ancestrale spinta di femminismo. Feci ne racconta i chiaroscuri in seguito ad un’attenta analisi delle oltre 700 carte rimaste a noi dall’inchiesta. Le protagoniste di questa rete - un sistema piramidale composto da produttrici, spacciatrici e acquirenti - appartengono quasi tutte ad una dimensione artigiana, sono le donne comuni incrociate per strada, tutte accomunate dal desiderio di fuggire dalla loro vita di violenze domestiche. Il traffico dell’acquetta di Giulia - un composto di piombo e arsenico bolliti in acqua - va oltre la dimensione economica, scavalca le differenze di classe per aggrapparsi ad una dimensione di umana solidarietà femminile.

L’importanza dell’approfondita analisi condotta da Feci risiede anche in questo, ci racconta Bortolato: nella restituzione delle voci delle classi subalterne, nonché di una fotografia nitida dell’iter giudiziario seicentesco. Resta a tutti gli effetti un processo penale laico perfetto, lontano da quello dell’immaginario comune della manzoniana Storia della colonna infame. A seguito della procedura di rito inquisitorio - le donne accusate hanno affrontato in un'aula a porte chiuse, senza difensore o conoscenza dei capi d’accusa, l’interrogatorio del giudice - tutta la città si è riunita ad assistere allo splendore del supplizio, il peggiore dei quali era riservato alle matrone produttrici. La spettacolarizzazione, forse, non era altro che un tentativo di rimettere in ordine il subbuglio causato da questa insubordinazione contro il patriarcato e il sistema sanitario (spesso il veleno era somministrato ai mariti, secondo istruzioni, in dosi moderate perché potesse camuffarsi anche agli occhi dei medici).

Questa attenzione mediatica è un ulteriore punto di incontro con la nostra modernità. Bortolato e Feci fanno riflettere sulla grande sproporzione tra i reati effettuati dalle donne (secondo il Rapporto Antigone, della totalità dei detenuti in Italia, solo il 4,3% sono donne) e la loro effettiva diffusione mediatica. Persino in quel luglio 1659 la mediatizzazione della vicenda è stata immediata: entrarono da subito in circolazione ballate in rima che ne raccontavano i dettagli.

Mentre nel diciassettesimo secolo la maggior parte dei reati penali era punita con tortura e/o pene capitali, al giorno d’oggi, nell’era social, i condannati che riescono a scontare la loro pena non hanno più il diritto all’oblio: un post, un articolo, un commento bastano ad impedire loro il reinserimento in società, incastrandoli così nella costruzione del loro caso. L’auspicio è quello di permettere di ricostruire, restituire una dimensione di umanità, senza ricadere nella neutralizzazione. Simona Feci, con L’acquetta di Giulia, ha cercato di avvicinarci alle storie di alcune tra le numerose donne divise tra l’essere criminali ed essere eroine.

A partire dalla narrazione storica, invece, Marcello Bortolato è riuscito a ricordarci come il nostro presente non sia così tanto diverso da quello che hanno vissuto Giulia Tofana (la creatrice del veleno), Girolama Spana e le loro coetanee. Tutt’oggi le donne vittima di violenza domestica difficilmente ricorrono a denuncia, nonostante dal 2019 in Italia sia attivo il Codice Rosso.

Che sia Seicento o Duemila, il filo conduttore resta la difficoltà di ascoltare la voce femminile al di là del sensazionalismo. Restituire umanità a quelle storie, ieri come oggi, significa andare oltre l’etichetta di carnefici o vittime, per riconoscere in esse il segno di un desiderio di libertà.