Le fonti fossili hanno indubbiamente avuto un ruolo essenziale nello sviluppo delle società moderne: hanno favorito la crescita economica e garantito l’accesso a beni e servizi che hanno migliorato la vita di miliardi di persone. Ma ciò che per decenni è stato il motore del progresso oggi è anche la principale minaccia per il futuro del pianeta. Tre quarti delle emissioni di gas climalteranti derivano ancora oggi da carbone, petrolio e gas, e la loro eredità positiva non basta più a giustificarne l’impiego. È tempo di andare oltre, ripensando radicalmente il nostro sistema energetico.
Di mappe della transizione ecologica e dei loro possibili impatti economici, sociali ed ambientali hanno discusso, a Festivaletteratura, Giorgio Vacchiano, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali - Produzione, Territorio, Agroenergia dell'Università Statale di Milano, e Gianluca Ruggieri, docente di Fisica tecnica ambientale all’Università dell’Insubria e studioso di efficienza energetica.
Per entrambi non si tratta più di chiedersi se sia necessario un superamento delle fossili, ma di capire come realizzarlo in tempi compatibili con la crisi climatica globale in corso. Il nodo è politico, economico e sociale, prima ancora che tecnologico. Perché, nonostante l’80% dell’energia mondiale derivi ancora da fonti fossili, sappiamo anche che alternative esistono e che il loro sviluppo è in corso. In Italia, ad esempio, fra il 2008 e il 2014 la quota di energia da rinnovabili è passata dall’8 al 17% sul totale dei consumi, e le stime per i prossimi cinque anni prevedono un balzo al 39%. Una crescita rapida, accelerata anche da scenari internazionali inattesi: la Cina sembra aver raggiunto in anticipo il picco delle proprie emissioni, e paesi insospettabili come il Pakistan stanno investendo massicciamente nel fotovoltaico, trovandolo più affidabile di reti elettriche nazionali fragili.
Nessuna transizione, però, è a costo zero e se i combustibili fossili sono responsabili di milioni di morti premature ogni anno legate all’inquinamento atmosferico anche le rinnovabili presentano impatti ambientali e sociali da tenere in considerazione in fase di valutazione e progettazione. L’estrazione delle terre rare necessarie per la produzione di batterie e pannelli solari concentra in pochi paesi — come la Repubblica Democratica del Congo — un potere enorme, generando conflitti, inquinamento locale e tensioni geopolitiche. Non esiste dunque una tecnologia priva di effetti collaterali: quello che si può fare è misurarne la portata. Gli studi disponibili mostrano ad esempio che un’auto elettrica, pur generando rifiuti difficili da smaltire, diventa più sostenibile di un’auto a combustione già dopo 30 mila chilometri percorsi.
Il tema della biodiversità è altrettanto centrale. Il cambiamento climatico viaggia oggi a una velocità che supera la capacità di adattamento della maggior parte delle specie viventi. Secondo gli studi, uno scenario come quello attuale sul lungo periodo potrebbe determinare l’estinzione dal 19 al 34% delle specie animali e vegetali del pianeta. A confronto, l’impatto di un impianto eolico sul paesaggio o sulla fauna avicola appare localizzato e contenuto. Le turbine offshore, o le soluzioni agrivoltaiche che permettono di continuare a coltivare il terreno sotto i pannelli, mostrano come sia possibile coniugare produzione energetica e tutela del territorio. Ma resta necessario un dialogo costante con le comunità locali per definire dove e come collocare queste infrastrutture.
Il cuore del nuovo sistema energetico non potrà basarsi poi solo sulla produzione di elettricità, che oggi copre appena un quarto dei consumi totali. Sarà cruciale lavorare sull’elettrificazione diffusa, sull’efficienza e soprattutto sulla flessibilità: accumuli, interconnessioni fra paesi, reti capaci di bilanciare surplus e deficit di produzione. In altre parole: passare da un modello centralizzato e basato su combustibili costantemente estratti e bruciati a uno decentrato, dinamico e fondato su risorse inesauribili come sole e vento.
Ma la sfida non è soltanto tecnica. C’è un problema di governance, di pianificazione e di scelte politiche. L’Italia, ad esempio, fatica a dare continuità normativa e regolatoria a chi vuole investire nelle rinnovabili: tetti inutilizzabili per vincoli antincendio, incentivi rimodulati continuamente, incertezza sugli iter autorizzativi. Ci sono invece comparti in cui il nostro paese avrebbe tutte le carte per giocare un ruolo industriale di primo piano, come la produzione di pompe di calore e di cavi elettrici, due tecnologie centrali per l’efficienza energetica e la decarbonizzazione.
Ogni discorso sulla transizione deve tenere conto anche delle relative implicazioni sociali. Chi pagherà i costi maggiori? Chi ne trarrà dei benefici? La storia insegna che le disuguaglianze rischiano di acuirsi se i processi di innovazione vengono lasciati al solo mercato. E proprio per questo che i movimenti ambientalisti da sempre insistono sul legame fra ecologia e giustizia sociale.
«La lotta per l’ecologia senza lotta di classe è giardinaggio»
recita un motto circolato fra gli attivisti e ripreso in molti contesti. Fridays for Future e altre realtà attive in proposito hanno sempre ribadito che non esiste una transizione giusta se non si tiene conto dei più vulnerabili.
Non basta, dunque, invocare la neutralità tecnologica. Ogni scelta energetica riflette un’idea di società. Puntare su fossili, nucleare o rinnovabili non è un atto neutro: significa scommettere su un modello di sviluppo, di economia e di relazioni geopolitiche. Fingere di non fare ideologia equivale in realtà ad accettare quella dominante. Non a caso, negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha come unica “ideologia” quella del disinteresse totale per la crisi climatica, come ha tenuto a sottolineare Ruggieri.
La transizione ecologica non è un lusso né un vezzo, ma una necessità che impone di immaginare il futuro. Un futuro che non riguarda solo l’energia, ma la salute, la biodiversità, la giustizia sociale, la geopolitica. E che chiama in causa tanto la responsabilità della politica quanto quella dei cittadini, invitati a ripensare i propri consumi, le proprie abitudini e persino le proprie aspettative di benessere.