07 | 09 | 2025

Fallibili e umanamente scomodi

Paul Murray dialoga con Giulia Cuter a proposito de Il giorno dell’ape, un romanzo che riscrive le regole della storia familiare e ricorda che l'unico strumento per evitare di deragliare è guardare con empatia alla realtà dell'umano.
«Ho verso l’Irlanda un pregiudizio positivo: la letteratura irlandese mi sembra poter indicare un accesso alla vita quotidiana moderna meno consuetudinario; gli scrittori irlandesi, e Murray in questo è maestro, mal sopportano la necessità continua di intrattenere, stupire, codificare la realtà rendendola sempre accattivante. [...] Qui tutto va male; tutto sembra soltanto un inciampo».

Le parole sono quelle di Roberto Saviano, in una sua recente recensione al libro Il giorno dell’ape di Paul Murray, di cui oggi si parla al Festivaletteratura 2025, ma risuonano forti anche dall’autore stesso, che in conversazione con Giulia Cuter racconta se stesso, la sua poetica e il romanzo che, tradotto in tutto il mondo, è stato insignito di diversi riconoscimenti, tra cui il Premio Strega Europeo.

È proprio dalla capacità di Murray di non lasciare “comodo” il lettore che prende le mosse il dialogo: Cuter racconta che molte recensioni del libro notificano un’insoddisfazione verso il finale, che nella loro opinione sembra aperto, quasi in un’accusa di vigliaccheria. Murray ricorda a tal proposito le parole di Ali Smith, sua maestra: «la struttura di un libro deve essere circolare, all’inizio e la fine di un libro si deve avere l’impressione di un micro-romanzo in cui al finale tutto era rimasto uguale e al tempo stesso tutto era cambiato».

Questo aspetto va inseguito in primis per la libertà concessa al lettore di interpretare personalmente il romanzo, la cui conclusione, sostiene Murray, non è aperta nel senso di incompiuta, ma più nell’accezione positiva di «variamente decifrabile». Al contempo accade perché a non cambiare, secondo l’autore, sono le persone stesse – pur crescendo, evolvendosi e inserendosi nelle macro-strutture che il mondo loro propone - ed è forse per questo che grande centro propulsore dei suoi romanzi, che pure riescono ad affrontare con pari forza ed efficacia le diverse età della vita, è spesso il periodo dell’adolescenza.

«Durante l’adolescenza tutto è in superficie, tutto il nostro caos interiore è presente, poi via via impariamo a gestirlo. È anche il momento in cui inizi a confrontarti con il muro della realtà e inizi a capire che ci sono delle strutture che ti impediranno di fare quello che vorresti fare».

Cass, la figlia adolescende di Dickie Barnes, intorno alle cui vicende familiari il romanzo si svolge, è in tal senso il motore centrale: come molti suoi coetanei è un’idealista, delusa dalla generazione venuta prima di lei, che le impedisce di fare ciò che vorrebbe avendo creato un sistema disfunzionale che impedisce ai suoi sogni di realizzarsi – sogni che, se davvero vogliono diventare realtà, devono adattarsi alla «macchina creata dalla generazione precedente, e ridurre di molto la loro portata».

La disillusione, nei personaggi de Il giorno dell’ape, è peraltro un passaggio che sembra quasi obbligato per chi stia crescendo: ad un certo punto ci si rende conto che il passato con le sue scelte presenta sempre il conto, ma ciononostante nemmeno una scelta diversa avrebbe potuto salvare dalla vita bloccante e opprimente che si sta vivendo. Una grande chiave di lettura che Murray offre, celando in ciò la speranza che avvenga presto un cambo di passo, è il fatto che le relazioni interpersonali si stiano facendo sempre più deboli: la tecnologia occupa pervasivamente ogni aspetto della vita, anche gli spazi che invece sarebbero stati l’adito al rapporto con l’Altro/a da sé.

«Le cose che le persone dovrebbero dirsi per alleggerire i loro rapporti sono sempre troppo difficili. Siamo fatti di maschere che ci si attaccano al volto, e spesso lo strappo che si dovrebbe fare è più doloroso del continuare a recitare una parte».

E a concludere il quadro di Murray, in cui è dipinto «un mondo in cui non è bello vivere», si aggiunge la scarsa speranza in una società che è sempre più appannaggio delle persone ricche, che portano all’eccesso ogni loro possesso, distruggendo in questa loro manovra tutto ciò che, per gli altri, crea relazione.

Con un tono che sa trovare la giusta dimensione tra lo sguardo reale sul mondo e l’ironia - forse perché di fondo c’è la speranza di una redenzione - Paul Murray ricorda una lezione importante: bisogna tornare a impegnarsi nel riuscire a guardarsi davvero gli uni con gli altri, per non rischiare di diventare esseri singolari, abbandonati e soli nel proprio rapporto con il difficile mondo in cui viviamo.