Al secondo piano di Palazzo Te, dove la luce filtra obliqua dalle grandi finestre quadrate e i soffitti sembrano custodire ancora il respiro dei secoli passati, un gruppo di persone si siede in cerchio. Non ci sono sedute monumentali, soltanto sgabelli di cartone e cuscini blu, un arredo che spoglia il palazzo della sua aura e lo rende ambiente intimo, quasi domestico. È in questo spazio, sospeso fra l’imponenza della storia e la leggerezza di un esperimento collettivo, che prende forma il primo appuntamento del laboratorio di Deep Listening per Festivaletteratura guidato da Diana Lola Posani, sound artist, performer vocale e prima facilitatrice italiana di una pratica che è al tempo stesso musicale, politica e terapeutica.
Il Deep Listening nasce negli anni Settanta con Pauline Oliveros, compositrice e figura di spicco del minimalismo statunitense. La sua non è mai stata soltanto una ricerca estetica: era anche la risposta a una domanda bruciante, che ha avuto origine nel ’68 ed è andata oltre — perché fare arte in un mondo attraversato dal conflitto? Per Oliveros l’ascolto intenzionale diventò una via non solo per produrre suono, ma per riconoscere quello che già esiste, per allenare una forma di attenzione che è cura. Ogni orecchio, secondo lei, compone. Non serve il sapere accademico per esercitare questa facoltà: basta fermarsi, spostare l’attenzione, ascoltare davvero.
Parlare di “paesaggio sonoro” significa comprendere che ciascuno di noi abita un territorio percettivo unico. Non esiste un ascolto oggettivo, neutro, ma un continuo intreccio fra ciò che accade e ciò che i sensi di ciascuno percepiscono. In questo senso il Deep Listening non è un metodo con regole da seguire, ma una prospettiva che ci restituisce consapevolezza: ogni rumore, ogni voce, ogni silenzio ha la capacità di raccontare qualcosa, a patto di concedergli spazio.
Il primo gesto che inaugura la pratica è una camminata lenta. Tallone, pianta, punta: il corpo avanza con una lentezza infinita, che all’inizio appare goffa, quasi ridicola, soprattutto in un mondo che misura valore e presenza in velocità. Ma, passo dopo passo, la percezione cambia: il pavimento freddo sotto i piedi nudi diventa una superficie con cui dialogare, il peso del corpo un fenomeno da osservare, i rumori un tessuto sonoro che si intreccia con l’atto stesso del muoversi. Lì, dagli stessi partecipanti, sorge spontanea una domanda: ma cosa significa davvero camminare?
Ogni esercizio del Deep Listening apre un varco da attraversare in direzione di universi sonori spesso sottovalutati. L’ascolto, sottolinea Posani, è l’unico senso che non possiamo spegnere: non esiste palpebra per le orecchie. È costantemente attivo e proprio per questo aiuta allenarlo, educarlo, raffinarlo.
Il percorso si snoda poi in meditazioni sonore: restringere il campo all’interno del corpo, allargarsi alla stanza, spingersi oltre le pareti e immaginare il suono più distante possibile. In questa espansione progressiva non conta tanto cosa si sente, ma la coscienza che si guadagna nell’atto stesso di ascoltare. Così si scopre che non c’è un ascolto "migliore" di un altro: il musicista che distingue strumenti e armoniche non ascolta in modo più autentico del contadino che riconosce le voci delle sue galline. Sono mappe diverse, entrambe valide. L’importante è restituire significato a ciò che, troppo spesso, scivola nel brusio indistinto.
Il laboratorio mostra anche come ogni specificità personale trasformi l’ascolto. Neurodivergenze, malattie croniche, disturbi come l’acufene non sono ostacoli ma chiavi di accesso a paesaggi sonori differenti, ricchi, complessi. Ogni orecchio è un mondo, e questo moltiplicarsi di prospettive rivela che non esiste un’unica modalità di abitare il suono.
Accanto alla dimensione individuale, c’è quella collettiva. Ogni attività si chiude infatti con un momento di restituzione e condivisione di feedback sull’esercizio appena svolto: la parola serve a dare corpo all’esperienza, a trasformarla in memoria. Raccontare come un passo lento riveli il peso del corpo o come un rumore improvviso appaia assordante significa ancorare ciò che altrimenti svanirebbe. Il dialogo fra i partecipanti è parte fondamentale della partitura sonora.
Accompagnare le persone in un percorso di Deep Listening non significa dunque insegnare una tecnica, ma suggerire una postura: imparare a rallentare, a distinguere, a riconoscere che il mondo è fatto di vibrazioni che il nostro cervello assorbe e impara a mettere in secondo piano per poterci permettere di muoversi nel caos che è la nostra contemporaneità. Significa ricordare che senza ascolto non c’è conoscenza, e senza conoscenza non c’è trasformazione.
Forse il dono più prezioso che ci ha lasciato oggi il primo appuntamento di Deep Listening è proprio questo: ostinarsi a sentire con nuove orecchie, senza retorica, senza forzature, ma con intenzione. Un atto semplice, quotidiano che ci ricorda come il paesaggio sonoro di ciascuno sia un territorio inesauribile, una geografia intima in attesa di essere mappata.