Il libro di Martina Ardizzi, L’algoritmo bipede, affronta e approfondisce il rapporto che noi esseri umani abbiamo con la tecnologia. Un rapporto biunivoco, che spesso è visto esclusivamente a senso unico. La verità è che, da Prometeo in poi, non possiamo fare a meno dell’uso della tecnologia, e per questo abbiamo cominciato a trasformare l’ambiente intorno a noi fino a renderlo artefatto. Tuttavia, secondo il terzo terzo principio della dinamica, anche l’ambiente ha operato a sua volta su di noi, influenzando enormemente la nostra evoluzione. Da decenni ormai l’essere umano - è sufficiente guardarsi intorno - non vive più in un ambiente ecologico, naturale, ma in un ambiente ricco della nostra tecnologia, tanto che si parla di circolarità dell’evoluzione. È proprio in quest’ottica che si lasciano influenzare e si concatenano fra di loro tre nicchie: la nicchia neurale (il nostro cervello, con i suoi meccanismi di funzionamento) e quella cognitiva (l’immaginazione, il pensiero, la memoria) che producono di fatto la nicchia ecologica. Se è vero, dunque, che l’uomo riesce a sfruttare la tecnologia e l’ambiente - anche se non è l’unica specie capace di farlo - allora è spontaneo chiedersi cosa contraddistingua davvero la nostra specie dalle altre?
L’uomo è l’unico animale capace di parlare (questo non vuol dire che le altre specie non posseggano delle forme comunicative complesse, come ad esempio i capodogli). Questo tratto distintivo, tuttavia, non è innato, come per molto tempo si è pensato, ma ha seguito un processo, una cascata di eventi che hanno inglobato al loro interno l’uso della tecnologia.
Il momento cruciale per l’evoluzione della specie è stato il passaggio dalla quadrupedia alla posizione eretta, evento che ha prodotto due conseguenze importantissime: l'orientamento del tratto vocale in verticale, da cui è derivata la possibilità di produrre vocalizzazioni più complesse e l'aumento dei suoni ricevibili, e la liberazione delle mani, con cui l’uomo ha incominciato a costruire i primi strumenti di sopravvivenza. Grazie alle maggiori possibilità date da questo riorientamento di posizione possiamo quindi dire di essere in grado di parlare: siamo l’unico essere a possedere un controllo volontario dei muscoli fonatori. Il passo successivo al linguaggio, si sa, è il pensiero, inteso come nicchia cognitiva. Ciò che invece non è comune sapere riguarda la capacità del cervello di continuare a evolversi e modificarsi. Un luogo comune, ad esempio, insegna che il numero di neuroni è finito, ma la scoperta della neurogenesi afferma l’opposto: il nostro cervello è plastico; in un cervello adulto sano possono nascere nuovi neuroni.
È un cambiamento che rappresenta una grossa risorsa, ma allo stesso tempo richiede un elevato costo metabolico. Il cervello si modifica solo se i cambiamenti da affrontare comportano vantaggi e se quello a cui si deve adattare non è la tecnologia contingente ma è la funzione che quella tecnologia abilita.
Inoltre, spesso si dimentica che anche il linguaggio e la scrittura sono una tecnologia: grazie alla lista della spesa, per esempio, deleghiamo la nostra memoria a un foglio di carta con impresso dell’inchiostro. È così, dunque, che arriviamo a chiederci che cosa sia l’umano e che cosa non lo sia, e lo stiamo facendo di nuovo attraverso la tecnologia, in questo caso grazie all’intelligenza artificiale. In conclusione stiamo approdando verso una sorta di tecnologia ontologica che è molto simile a come noi funzioniamo, anche se risulta ancora insensato e impossibile affermare che l’intelligenza artificiale sia corrispondente a quella umana.