06 | 09 | 2025

I figli dell'odio

Cecilia Sala racconta l’odio che attraversa generazioni tra Israele, Gaza e Iran

A Hebron, alcune ragazze di tredici anni sventolano uno striscione contro le coppie miste. È un gesto piccolo e insieme terribile: simbolo di una radicalizzazione giovanile che percepisce la separazione etnica come missione. In Israele i matrimoni misti costituiscono solo il 7% del totale: una quota minima che rende ancor più stridente l’intensità con cui alcune adolescenti si battono contro di essi.

Con I figli dell’odio Cecilia Sala prova a raccontare quello che il flusso incessante di notizie lascia fuori campo: le vite segnate dal livore, le scelte dei giovani, le tensioni invisibili che sostengono conflitti decennali. Il libro segue tre traiettorie che si intrecciano: la guerra nella Striscia di Gaza, la radicalizzazione della società israeliana e la vita quotidiana in Iran, dove Sala stessa è stata incarcerata senza accuse per tre settimane lo scorso inverno.

L’episodio che funge da innesco per la scrittura del libro, racconta Sala in dialogo con Veronica Fernandes, è la fotografia di un processo lungo: una radicalizzazione che, nel giro di una generazione, ha portato in primo piano leader come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir del partito di estrema destra Otzma Yehudit, capaci di esercitare una pressione significativa sulla politica di Netanyahu ben oltre il loro peso numerico. È la spia di un mutamento che non riguarda solo gli equilibri di potere, ma la mentalità stessa dei più giovani: è una generazione cresciuta senza alcuna familiarità con i palestinesi, se non per le cronache di scontri e uccisioni.

Nel libro, Sala intreccia a questo primo episodio altre figure e percorsi: i ragazzi che hanno interiorizzato l’odio come linguaggio comune, le famiglie che trasmettono il rancore come un’eredità, i leader religiosi e politici che sanno alimentarlo e trasformarlo in consenso. Il reportage non fotografa soltanto una geografia della radicalizzazione, ma tenta di restituire la sua anatomia. Per farlo, Sala racconta la storia dal macrocosmo della politica al portato quotidiano. Descrive la brutalità e l’eccesso delle reazioni israeliane di fronte a un ragazzo che, lanciando un sasso fuori dall’università, viene colpito da un proiettile che gli recide la mano destra. Racconta anche la rabbia dei giovani palestinesi di fronte ai soprusi.

Parallelamente, in una famiglia di Jenin, padre e figlio incarnano due visioni opposte: il padre crede ancora negli Accordi di Oslo, nella possibilità di una convivenza e di uno Stato che garantisca libertà e regole, e cerca di trasmettere questa speranza al figlio. Il figlio, Samih, ascolta, ma non crede: conserva nascosti tre fucili d’assalto e si convince che la violenza sia l’unica risposta, nutrendo rancore per il fallimento della storia che ha visto con i suoi occhi a Gaza. Muore a diciannove anni, tentando di colpire le truppe israeliane. La tragedia assume una dimensione paradossale: il padre, Firas, riconosce il figlio solo da una fotografia, mentre altri ragazzini lodano Samih come martire ed eroe, esaltando la sua morte. È un vero “figlio dell’odio”, segnato dalla frattura tra promessa e fallimento della politica.

Sala intreccia la grande storia con il quotidiano: chi sopravvive resta mutilato, chi muore diventa simbolo, e tutto questo racconta la logica dell’odio che attraversa le generazioni e plasma vite e coscienze, fino ai più giovani. Racconta di come a Gaza lo stato di disperazione soffochi persino la rabbia: decenni di blocchi, bombardamenti e privazioni materiali hanno generato una frustrazione più impotente che rabbiosa. Per capire come siamo arrivati qui bisogna ricordare due snodi: il ritiro delle truppe israeliane da Gaza del 2005 — il ’“disengagement” voluto da Ariel Sharon, che rimosse gli insediamenti israeliani dalla Striscia (lasciando però intatte la maggior parte delle colonie in Cisgiordania) — e la successiva evoluzione politica interna israeliana, con l’ascesa di figure di destra radicale che hanno saputo trasformare la protesta di strada in potere istituzionale. Sul terreno, la dinamica si traduce in un’escalation visibile: attacchi di coloni, atti di violenza contro villaggi palestinesi, danneggiamento di infrastrutture e quasi impunità per molti autori di tali aggressioni. Infine, vale la pena osservare le città «miste» di Israele — come Lod e Ramla — che negli anni recenti hanno mostrato quanto fragile sia la convivenza quotidiana: tensioni latenti sono esplose in ondate di violenza e sono nati spazi di dialogo e riunioni di quartiere come tentativo di tenere insieme comunità divise. Sala racconta anche queste micro-storie, dove la vita quotidiana e le reti di solidarietà convivono con il timore e il sospetto che la guerra possa frantumare ogni tessuto sociale.

In questo libro Sala non cerca risposte facili. Non esibisce condanne morali né semplifica i conflitti. Osserva, documenta, intreccia storie, e attraverso questo montaggio di voci e frammenti costruisce un ritratto del presente che restituisce al lettore la complessità della violenza, delle ideologie e dell’eredità che lasciamo alle generazioni successive.