06 | 09 | 2025

Il cortocircuito dell'informazione

Christian Elia e Maurizio Pagliasotti si confrontano sul loro lavoro giornalistico, dei meccanismi contraddittori dell'informazione e come disinnescarli

Quando il 2 settembre 2015 il corpo del piccolo Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni in fuga verso la Grecia insieme alla sua famiglia, venne trovato riverso senza vita sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, l'opinione pubblica europea ne rimase scioccata. La notizia, accompagnata dalla foto del bimbo, fece il giro delle testate giornalistiche e sembrò segnare l’inizio di un momento felice di apertura verso l'ingresso dei migranti in Europa. Poi però, una volta svanita la spinta emotiva, e a seguito dell’arrivo di milioni di persone provenienti da Siria, Afghanistan e Iraq, si tornò a riparlare di chiusura delle frontiere e di rotte clandestine, come quella balcanica, che costringevano le persone a viaggi rischiosissimi.

A dieci anni di distanza da quell’evento, i giornalisti Christian Elia e Maurizio Pagliasotti aprono un dibattito su che cosa è accaduto nel frattempo, domandandosi come sia stata raccontata la storia delle migrazioni attraverso i Balcani, cosa sia cambiato tra ieri e oggi e che risultati ha ottenuto il lavoro dei reporter sul campo. L'esperienza personale dei due giornalisti ha messo in luce le contraddizioni di questo mestiere e le storture che si celano dietro la copertura mediatica di tali eventi.

La vita dei migranti lungo il tragitto che dal Medio Oriente li avrebbe portati in Europa era un susseguirsi di ostacoli, condizioni metereologiche avverse, paura di essere scoperti lungo le rotte e fermati. Ma queste rotte non erano un segreto, erano evidenti di fronte agli occhi di qualsiasi istituzione, e reporter, fotografi, un'intera troupe spesso seguivano gli uomini e le donne in fuga, per testimoniare la loro esperienza, senza poter fare nulla per eliminare le loro difficoltà. E qui sta il paradosso del giornalista, che ha il dovere etico di portare alla società civile queste storie dolorose e al contempo è costretto ad assistervi da spettatore.

Il dissidio morale insito in questa dinamica forse può essere superato nel caso in cui il lavoro giornalistico comporti un miglioramento della condizione dei migranti. Ciò che è accaduto dal 2015 fino a oggi è che il viaggio di queste persone ha mutato la sua forma, perché sono gli Stati dell’Unione Europea ad aver modificato la strategia di risoluzione del problema. Mentre lungo le rotte irregolari i migranti erano sì costretti a condizioni inumane, ma avevano nei giornalisti un interlocutore e la traccia del loro passaggio rimaneva impressa sulle pareti delle fabbriche abbandonate dell’ex Jugoslavia da loro occupate, oggi il loro percorso è intercettato dalle istituzioni e queste persone vengono relegate in campi di detenzione ai margini della società.

Qual è stato, quindi, il contributo del giornalismo? Elia e Pagliasotti dubitano che sia stato benefico ed esprimono lo sconforto di chi vede un problema senza avere la più pallida idea della soluzione. Dal loro punto di vista, gli articoli che producono, i libri che scrivono creano una bolla culturale e alimentano una parte del mercato dell’informazione che chiede e consuma sensi di colpa. Ciò che è più problematico, però, è che non vi sia più alcun confronto del giornalismo con le istituzioni, che siano scomparsi quegli organi intermedi che permettevano la comunicazione con il mondo della politica. C’è qualcosa che non sta funzionando in questa dinamica, e che lascia nei giornalisti un senso di ingiustizia e di impotenza.

In bilico tra la semplificazione del proprio linguaggio per rendersi fruibili a un pubblico più ampio e il vano tentativo di aprire un dialogo con i partiti politici, i giornalisti sanno che in molti momenti il loro sforzo di trovare una quadra non pagherà, eppure è comunque giusto far fede alla propria coscienza e continuare a provarci.