04 | 09 | 2024

Il dolore: semplice come l’acqua (frizzante) e inafferrabile come un ricordo

La cognizione del dolore tra scienza e filosofia

Due libri a confronto. Da un lato, il testo di Roberta Fulci: matematica, redattrice e conduttrice a Radio3Scienza di diversi programmi di divulgazione scientifica. Il suo Il male detto. Che cosa chiamiamo dolore (Codice edizioni, 2023) prova a rispondere alla domanda insita nello stesso titolo del volume. Dall’altro, quello di Antonella Moscati, Patologie (Quodlibet, 2024). Moscati si occupa di filosofia, traduce dal francese e dal tedesco, e nel suo Patologie recupera dalla sua infanzia ricordi di dolore «utilizzando l’ironia come arma contro lo struggimento che la rievocazione del dolore provocava». Al centro, una relatrice autorevole e capace come Silvia Bencivelli: giornalista scientifica e autrice di Eroica, folle e visionaria. Storie di medicina spericolata.

Si parte senza troppi convenevoli: perché indagare il dolore? Fulci risponde (con il sorriso tipico dell’archeologo quando ha trovato qualcosa di raro) che le ragioni sono il suo amore per le definizioni e quello per l’acqua frizzante. Se non è difficile immaginare che un matematico abbia nel DNA la tendenza a voler congelare tutto in definizioni univoche che levino di mezzo ambiguità e fraintendimenti, è quantomeno curioso provare a capire cosa c’entri l’acqua frizzante. Dice Fulci: «Se preferisco l’acqua frizzante - non dissimile da quella naturale per sapore, colore o odore - la ragione deve necessariamente risiedere in quel grado di dolore che generano le bollicine». La questione si fa interessante e di certo il “dolore” generato delle bollicine è un dolore specifico, unico e forse difficilmente decifrabile. Come si racconta un dolore come questo? E tutti gli altri dolori? Esistono diversi dolori o solo diversi gradi dello stesso dolore?

L’International Association for the Study of Pain, con sede a Washington, prova a incastonare il dolore in una definizione che però resta vaga: «il dolore è un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a un danno tissutale effettivo o potenziale, o espressa in termini di tale danno». Le parole che definiscono il dolore hanno a che fare, quindi, con l’esperienza individuale del dolore. Moscati ne parla con la delicatezza di chi conosce la ricchezza e la fragilità del dolore quando è privato, il che, inevitabilmente, rischia di scivolare in un silenzio imbarazzato. Un tabù. L’esperienza definisce il dolore sedimentandolo nella memoria personale di ognuno di noi, ma senza regalare il sollievo di vocaboli utili a definirlo (e quindi contenerlo). Quel che resta è piuttosto un’emozione generata da un impulso fisico e chimico. Se poi questo impulso viene indagato, realizziamo che il nostro cervello non è così affidabile. Ne sono un esempio la “sindrome dell’arto fantasma” e “l’illusione della mano di gomma”, senza trascurare le terapie placebo.

Niente da fare: il ginepraio sembra invalicabile. Resta la letteratura, che si interroga da sempre sul tema del dolore tanto quanto la scienza. Il dolore nutre le trame e veste i personaggi che le vivono, sia esso fisico, psichico, psicologico o sociale. Probabilmente, allora, la definizione più accurata di dolore si nasconde da qualche parte nell’insieme delle storie che riempiono i nostri scaffali. Forse il dolore è quella sfumatura che regala tridimensionalità all’esperienza umana e che non è separabile dal tutto. Forse il dolore non è opposto a nulla, ma dentro ogni cosa.

Comunque sia: bevete acqua frizzante.