04 | 09 | 2024

Il mondo sta sempre finendo da qualche parte

Paul Lynch sulla capacità della narrativa di mettere a fuoco ciò che resta sullo sfondo, la vita delle persone

Tutti inconsciamente pensano che il mondo per come lo conoscono, quello in cui vivono oggi, durerà per sempre. Tutti pensano che lo stato di diritto sia uno scudo inscalfibile e la libertà di cui godono immutabile soprattutto quando hanno conosciuto solo “la vita in tempo di pace” come direbbe Francesco Pecoraro. Eppure, Paul Lynch con il suo romanzo Il canto del profeta edito in Italia da 66th and 2nd e vincitore del prestigioso Booker Prize nel 2023, ha ribaltato la prospettiva: l’erosione della libertà non è (quasi) mai qualcosa che avviene dalla notte al giorno, è più paragonabile ad un lavorio lento ma costante. Uno scricchiolio bisbigliato che non preoccupa fino al crollo improvviso.

La convinzione che certi fatti non possano accadere, che qualcuno farà qualcosa, che si tratta solo di un momento accompagnerà i protagonisti fino a quando la situazione correrà ormai chiaramente verso l’irreparabile. È questo il grande lascito de Il canto del profeta, ricordarci quanto sia fragile la nostra civiltà. L’autore irlandese, intervistato da Olga Campofreda, lo fa raccontando la storia di Larry ed Eilish in una Dublino che potrebbe essere quella di oggi. Lo fa muovendo il fuoco dal primo piano allo sfondo, laddove si trova l’hidden cost – il costo nascosto – di ogni svolta totalitaria, di ogni guerra: la vita delle persone.

In questo libro ho provato a esplorare tutti gli strati che compongono l’identità dei personaggi perché tutti noi siamo il centro della nostra storia, non ci troviamo al centro degli accadimenti politici. […] Viviamo nell’era dell’immagine e siamo abituati a osservare la realtà filtrata dal telegiornale, dove guardiamo scene di disperazione e persone perdere tutto mentre ceniamo. Le persone che vediamo sugli schermi non sono davvero persone, sono oggetti. Attraverso la narrativa abbiamo la capacità di aggirare l’assuefazione e avvicinarci.

La protagonista infatti è Eilish, biologa, madre di quattro figli, caretaker del padre che sta lentamente e inesorabilmente scivolando nelle nebbie della demenza. Una vita piena stravolta il giorno in cui il marito sparirà nelle trame fitte dell’apparato statale. Da quel momento le ragioni che hanno trascinato l’Irlanda verso la destra radicale e poi il totalitarismo non saranno più importanti. Conta sopravvivere alle pressioni, alla fatica e alle responsabilità. Eilish si troverà a reggere sulle spalle un doppio peso: quello di una quotidianità mutilata e la consapevolezza dell’oscurità verso cui la nazione pare muoversi a tutta velocità. Lynch tiene a sottolineare che il genere in cui la critica ha incasellato il suo romanzo è totalmente errato. Sarebbe corretto parlare di narrazione speculativa o di una conversazione aperta fra passato, presente e futuro perché «se quello che sto raccontando sta avvenendo già da qualche parte nel mondo allora non si può certo parlare di romanzo distopico».

«Il mondo sta sempre finendo da qualche parte» ricorda Lynch citando il romanzo. «In questo momento il mondo sta finendo a Gaza o in Ucraina» afferma seguito da un fragoroso applauso. E se alle volte giudicare l’immobilismo della società o delle persone che ci circondano fra una forchettata e l’altra ci fa sentire dalla parte giusta della storia è perché non stiamo guardando abbastanza da vicino.

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