07 | 09 | 2025

Il mostro, la pazza e il cannibale

Con Carmen Gallo da Shakespeare a Coetzee: il racconto dell'alterità tra colonialismo e postcolonialismo

Quella che mette in scena Carmen Gallo nel cortile della biblioteca Baratta è un’opera modernista in cinque atti. Cinque sono i testi che si succedono nella sua riflessione, a partire da La Tempesta, passando per Jane Eyre e Robinson Crusoe, fino ad arrivare a Il grande mare dei sargassi di Jean Rhys e Foe di J. M. Coetzee. Tra il primo e l’ultimo passano tre secoli, ma in ognuno si trova un personaggio esotico, diverso, che viene visto come un essere inferiore, da addomesticare. Carmen Gallo indossa la sua veste di insegnante e nelle opere mette in luce la prospettiva coloniale e quella postcoloniale sull’alterità.

Nel 1611, davanti a re Giacomo I, Shakespeare mette in scena per la prima volta La tempesta, l’ultimo dramma a lui interamente attribuito. Al centro della narrazione troviamo Prospero, duca di Milano spodestato dal fratello ed esiliato in un’isola che pensa deserta. In realtà questa è abitata da Ariel e Calibano, due figure che hanno poco o niente di umano: il primo è evanescente, appartiene quasi più al mondo degli spiriti, mentre il secondo è descritto come un mostro, un pesce, argilla, deforme. Ancora prima che appaia in scena, a Calibano viene negato lo statuto di essere umano, nonostante a lui vengano affidate le battute più poetiche del dramma. La storia si sviluppa in modo alquanto familiare: in un primo momento il nativo dell’isola aiuta Prospero, ma poi viene da lui ridotto in schiavitù. La sua punizione non è del tutto immeritata. Calibano, infatti, tenta di violentare la figlia di Prospero, Miranda, e non lo nega. Dice di averlo fatto per ripopolare l’isola, per lui non c’è niente di sbagliato e diventa evidente quanto la sua moralità si distacchi da quella occidentale. Per questo viene subito additata come mostruosa, seguendo una tendenza ormai generalizzata di sovrapporre il diverso allo sbagliato.

Il nome di Calibano è, nella lingua e al tempo di Shakespeare, anagramma di cannibale, l’incarnazione della disumanità. Il cannibale più famoso della letteratura, però, lo troviamo in Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719). Naufragato su un’isola che pensa deserta (altro eco de La Tempesta), un giorno Robinson trova delle impronte umane che scopre appartenere a una tribù di cannibali in procinto di compiere un sacrificio. Robinson salva l’uomo destinato a essere mangiato (lui stesso membro della tribù) e lo chiama Venerdì come il giorno in cui l’ha trovato. Lo battezza e lo addestra, trasformandolo in braccio operativo della sua quotidianità. La loro è una relazione che si fonda sull’assimilazione e sulla subordinazione, anche se Robinson la maschera da amicizia. Venerdì non oppone mai resistenza, ma resta prigioniero di un nome e di un destino imposti.

In Jane Eyre (1847) l’isola che la protagonista pensava deserta altro non è che Thornfield Hall, la mansione vittoriana dove vive come istitutrice e del cui proprietario, Mr Rochester, si innamora. Dell’esistenza della madwoman in the attic Jane lo scopre solo il giorno del loro matrimonio, che viene interrotto con un’accusa di bigamia verso Rochester. L'uomo è già sposato, non lo nega, ma trascina tutti a vedere la creatura a cui si trova legato: non è una donna, ma piuttosto «una bestia che ringhia, una iena vestita che ad un certo punto si alza sulle zampe posteriori». Sua moglie, Bertha Mason, è una donna creola conosciuta in Giamaica e sposata sotto le pressioni del padre che voleva per lui la ricca ereditiera di una piantagione. L’alterità coloniale diventa qui un rimosso interno, un doppio perturbante che mette in crisi l’ordine morale incarnato da Jane, simbolo di purezza e perfezione vittoriana.

Alla storia di Bertha, Charlotte Brontë fa solo un accenno, ma più di un secolo dopo, Jean Rhys le dà una nuova voce con Il grande mare dei sargassi (1966). Qui racconta la giovinezza di Antoinette Cosway, la donna che diventerà Bertha, mostrando la sua alienazione già a partire dall’infanzia giamaicana dove era vista come figlia del nemico perché creola, fino al suo arrivo in Inghilterra e alla censura della sua alterità che culmina nel momento in cui Rochester la costringe a cambiare nome. Rhys illustra tutte le ragioni che hanno portato la donna a diventare la pazza nell’attico superando la visione coloniale della Brontë e dando voce a un personaggio rimasto muto per un secolo.

Al contrario, in Foe (1986), Coetzee non dà nessuna voce a Venerdì, anzi gliela toglie. Questa riscrittura di Robinson Crusoe aggiunge alla trama originale un personaggio femminile, quello di Susan Barton, donna alla ricerca della figlia perduta che finisce per naufragare nella stessa isola di Robinson e Venerdì. Susan prende a cuore il destino di Venerdì e quando Robinson muore lo porta con lui a Londra: Calibano arriva in città e diventa il nuovo mostro che mette in crisi la metropoli. Qui la donna inizia a cercare uno scrittore che racconti la loro storia e si interroga su come Venerdì abbia perso la lingua (dettaglio non presente nella versione di Defoe). Non arriva mai a una risposta, Venerdì balla e basta, si rifiuta di dare una spiegazione. Coetzee ci mette così di fronte alla sfida dell'irriducibilità dell'alterità e, grazie a Susan, ci dimostra che non è necessario l'addomesticamento per relazionarsi con il diverso.

Dalla Tempesta di Shakespeare al Robinson Crusoe di Defoe, da Jane Eyre di Brontë fino alle riscritture di Rhys e Coetzee, emerge un percorso in cui l’alterità viene prima demonizzata, poi rimossa e infine interrogata. Calibano, Venerdì, Bertha Mason, figure segnate dall’etichetta di mostruosità o follia, mostrano come la mentalità occidentale e la sua tradizione letteraria abbiano spesso sovrapposto il diverso allo sbagliato, l’esotico all’inferiore. Allo stesso tempo, le riscritture moderne e postcoloniali mettono in discussione questi paradigmi, restituendo voce e complessità a chi era stato ridotto al silenzio. Ciò che unisce queste opere è la capacità della letteratura di fare emergere le contraddizioni dei sistemi culturali e politici che le hanno generate. Non importa se si tratta di un dramma elisabettiano, di un romanzo settecentesco o di una riscrittura del Novecento: i classici continuano a parlarci perché non offrono risposte univoche, ma aprono spazi di dubbio e di confronto. In questo risiede la loro forza vitale: se la letteratura si limita a raccontare le cose come stanno, rimane imprigionata nel proprio tempo. Se invece lascia aperti i conflitti, se interroga e mette in crisi, diventa capace di trascenderlo e di dialogare con il presente.