Per entrare nel teatro Bibiena di Mantova occorre scivolare attraverso un porticciolo di legno. Lo spazio è raccolto, intimo; ogni passo riverbera sulla scena. Una melodia lontana si avvicina: proviene da una radiolina sul palco, le note di Urvasi Urvasi che fluiscono leggere. Di fronte al pubblico, già sistemato, una donna – Mala Ratnamohan – traccia con la tinta rossa dei caratteri in alfabeto tamil su fogli improvvisati.
Ahilan Ratnamohan apre lo spettacolo La tamilizzazione di Ahilan Ratnamohan, un’opera meta-teatrale, fragile e intensa, che riflette su due maternità: quella genitoriale e quella linguistica.
Ahilan è poliglotta, sorprendentemente capace di apprendere lingue con facilità; eppure per anni ha vissuto l’impossibilità di imparare la sua lingua madre, il tamil. Figlio della diaspora, cresciuto a Sydney in una famiglia emigrata dallo Sri Lanka, racconta di un padre che non si perdeva una puntata del telegiornale cercando di fagocitare l’inglese e di sgusciare nella nuova lingua d’adozione. La madre, invece, custodiva un mondo intero di lingua, memoria e legami che Ahilan non aveva mai potuto raggiungere.
Negli ultimi sette anni ha cercato di colmare quella distanza. Le conversazioni via Skype con sua madre sono diventate un rito, un laboratorio quotidiano per apprendere il tamil autentico di Jaffna. Non quello dei libri di testo o dei telegiornali, ma la lingua viva, trasmessa attraverso la famiglia e la comunità. Per sette anni ha provato con canzoni, programmi televisivi, giochi infantili; desiderava padroneggiare la lingua per il compleanno della madre. L’insegnante, sul palco accanto a lui, era la madre stessa: guida, stimolo, incoraggiamento.
Gli incontri con la diaspora in tutto il mondo hanno aggiunto frammenti a questa esperienza: lo rendono vivo, ma insieme sfuggente. Lo spettacolo, interamente in tamil, è la trasposizione di un desiderio, ossia quello recitare l’uomo che avrebbe voluto essere da bambino, rivivere la terra di Jaffna dei nonni, immaginare di fondare la prima squadra professionistica di calcio.
Sul palco, Ahilan incarna una versione iperbolica di sé, rintracciando le radici della perdita nella riscoperta del linguaggio, nell’esperienza stessa della memoria. Gran parte del pubblico non conosce il tamil; le parole scorrono tradotte in italiano su uno schermo, e tutto si capovolge: chi ascolta cerca di afferrare la lingua e, con essa, il tentativo di ricostruire un’identità perduta, mentre Ahilan incarna la versione di sé che aveva sempre inseguito e che la lingua gli aveva finora negato.
La tamilizzazione di Ahilan Ratnamohan non è solo una performance: è un attraversamento della memoria, della lingua, del desiderio di recuperare ciò che il tempo e l’esilio hanno reso distante. Ogni gesto, ogni parola in tamil pronunciata sul palco, è un atto di restituzione e di trasformazione.