C’era una volta l’Est di Boban Pesov e La stagione che non c’era di Elvira Mujčić sono due libri indubbiamente diversi per tono e struttura – un graphic novel il primo, un romanzo il secondo – ma comunicano fra loro su numerosi piani tematici. A tracciare linee e aprire passaggi fra parole e vignette ci ha pensato Simonetta Bitasi durante l’incontro svoltosi nella quarta giornata di Festivaletteratura. Bitasi ha mostrato come i due autori, pur partendo da vissuti distanti, abbiano finito per muoversi lungo traiettorie comuni esplorando tematiche come la tensione del ritorno verso casa e gli effetti che gli eventi della Storia con la S maiuscola lasciano sulle persone comuni e in particolar modo su piccoli nuclei famigliari.
Il romanzo di Mujčić si apre nella Jugoslavia del 1990, sospesa tra il sogno ancora vivo della fratellanza jugoslava e i primi venti nazionalisti. Tre personaggi animano la narrazione: Nene, l’artista che teme l’oblio del proprio Paese; Merima, che crede ancora nella politica come possibilità di coesione; ed Eliza, una bambina che cerca il padre mai conosciuto. Ognuno di loro porta addosso le contraddizioni di un’epoca, e proprio nelle loro vicende minime si riflette il destino di un Paese intero, alle soglie di una guerra che trasformerà tutto in modo irreversibile. Pesov, con il suo C’era una volta l’Est, parte da un orizzonte diverso: la memoria familiare della migrazione dalla Macedonia e le dissonanze di chi è cresciuto altrove. Il graphic novel – in parte autobiografico - si concentra su una famiglia, sugli strappi e sulle assenze che la partenza comporta, ma in controluce mostra un’intera fase storica. L’influenza dichiarata del western di Sergio Leone diventa qui un metodo che permette all’autore di raccontare i Balcani attraverso la lente di un nucleo ristretto, dove ogni gesto quotidiano porta con sé un’eco politica.
Il ritorno, o nostos, è il punto di incontro più evidente e nei libri di entrambi non coincide mai con la semplice nostalgia: tornare significa misurarsi con ciò che è cambiato e con il peso della memoria. Per Mujčić, il ritorno ha il sapore di una ferita collettiva che accompagna ogni tentativo di ricostruzione. Per Pesov, invece, è la ricerca individuale di un legame con un Paese che conosceva solo a frammenti, attraverso i ricordi d’infanzia e i racconti dei genitori. Due ritorni diversi, uno segnato dall’urgenza politica e l’altro da una necessità personale, ma entrambi guidati dalla consapevolezza che il viaggio di ritorno è sempre più complesso di quello di andata. Divergono invece le loro visioni sull’identità e mentre Mujčić ne diffida considerandola un concetto mortifero, rigido, incapace di restituire la mobilità e le contraddizioni della vita, Pesov, al contrario, la ricerca. Non come etichetta chiusa, ma come consapevolezza acquisita e positiva. Dopo una giovinezza vissuta da «straniero in ogni luogo» come ricorda l’autore – macedone in Italia e italiano in Macedonia – sceglie oggi di recuperare tradizioni, suoni, sapori. Non un patriottismo cieco, ma un modo per non perdere del tutto le tracce della propria origine.
Entrambi mettono in scena il conflitto generazionale: i padri e le madri che hanno dovuto compiere scelte radicali – migrare, sopravvivere – e i figli che ereditano quella frattura. Nel romanzo di Mujčić, i sogni politici degli adulti si infrangono mentre la nuova generazione cresce già dentro la disillusione. Nel graphic novel di Pesov, il padre emigrato clandestinamente incarna un’assenza dolorosa, mentre i figli sperimentano il privilegio di una vita che non ha dovuto conoscere le stesse emergenze.
Da qui nasce la necessità per entrambi di raccontare persone liminali, persone che vivono tra più culture, parlano più lingue e sentono più appartenenze e raramente riescono a sentirsi pienamente a casa. Mujčić lo sottolinea con forza: la migrazione rende tutti persone liminali, costringendo chi si sposta a reinventare continuamente la propria posizione rispetto al mondo.
Se Mujčić predilige la parola, capace di restituire tensioni intime e collettive insieme, Pesov affida alla potenza delle immagini il compito di riportare dettagli, rimandi storici e culturali. In entrambi i casi, però, l’obiettivo è simile: fare emergere la grande storia a partire dalle vite minime, restituire complessità attraverso pochi personaggi che diventano emblemi di un’epoca. È la conferma che la letteratura – in qualunque forma si presenti – non serve tanto a documentare, quanto a rendere visibile ciò che rischierebbe altrimenti di restare invisibile. In fondo, il senso ultimo dei due libri sembra coincidere con un motto di Ars Aevi ricordato da Mujčić, inviato in chiusura di un telegramma da un artista durante l’assedio di Sarajevo: «Se cerchi l’inferno chiedi la strada a un artista, se non trovi artisti sei già all’inferno». Raccontare diventa allora un atto di resistenza, il modo per opporsi al silenzio e al vuoto. Sia nel segno della parola che nel segno del disegno, Mujčić e Pesov mostrano come sia ancora possibile dare voce alle fratture della Storia, restituendo dignità a chi le ha attraversate.