07 | 09 | 2025

Le sorti di Gaza saranno un indicatore delle sorti del mondo

Ilan Pappé e Christian Elia parlano di Storia e di futuro

Per quanto il mondo sembri indifferente al genocidio in corso a Gaza, oggi il cortile di Palazzo San Sebastiano è pieno di gente che vuole capire, imparare, contestualizzare, trovare strumenti. Christian Elia, giornalista che di Palestina si è occupato sin dagli anni ’90, intervista Ilan Pappé, che parla da storico e da storico nel senso più alto.

Pappé ha scritto alcuni testi fondamentali per la comprensione del genocidio in corso, da La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008) a Brevissima storia del conflitto fra Israele e Palestina (Fazi, 2024). Il 7 ottobre ne uscirà un altro, La fine di Israele. Il dialogo di oggi comincia appunto da questa idea: la fine del sionismo, di una certa idea di Israele; comincia dall’idea che l’occupazione e l’apartheid uccidano chi li subisce mentre fanno ammalare chi li perpetra.

«Parlo dell’inizio di una fine» racconta. «Da storico so che processi del genere sono lunghi. Non sto facendo una predizione di qualcosa che avverrà domani o dopodomani, ma un’analisi di sintomi presenti già oggi». Nessun genocidio si è mai concluso con un sereno ritorno allo status quo: quello che è realistico è che cominci una fase diversa.

La fase che ha portato a quest’esito estremo è cominciata perché l’Occidente ha a lungo ritenuto a lungo e ancora ritiene di poter risolvere i propri problemi a spese di altri popoli. La costruzione dello stato d’Israele è stata l’esito della mancata risoluzione della cosiddetta questione ebraica in Europa e, quando agli ebrei perseguitati in Europa sembrò demenziale l’idea di spostarsi in una terra che non era vuota e che avrebbero colonizzare con la violenza, un’intensa attività di lobbying propagandò l’idea di una Palestina disabitata. Con l’appoggio dei cristiani evangelici e degli imperialisti britannici: «così» spiega Pappé «se gli Ebrei si fossero spostati in Palestina per gli evangelici sarebbe tornato Gesù, e per gli imperialisti la Palestina sarebbe diventata britannica». «Malgrado l’immoralità e gli ostacoli pratici presentati dal progetto» continua «c’è stata una potente alleanza mondiale che l’ha reso e lo rende possibile».

È la storia di centocinquant’anni di occupazione e di violenza, che ormai è sempre più nota anche al pubblico generalista, ma i cui dettagli anche meno noti Pappé illumina con precisione. È anche la storia di come per centocinquant’anni, mentre gli abitanti di Gaza vivevano sotto costante minaccia, i paesi occidentali hanno considerato Israele uno di loro e l’hanno definito l’unica democrazia del Medio Oriente.

Non è solo una questione economica, dice Pappé. Per gli Stati Uniti (come per l’Australia, il Canada, il Brasile, l’Argentina…) fare i conti con Israele vorrebbe dire fare i conti con il proprio stesso passato. Israele, si potrebbe dire, scoperchia il rimosso collettivo di Stati nati da persone cacciate dall’Europa che sono andate a costruire qualcos’altro altrove e, non trovando quest’altrove disabitato, spesso hanno perpetrato genocidi e pulizie etniche. Pappé parla di colonialist hangover: una domenica mattina del Nord del mondo che si aspetta, dopo aver compiuto violenze innumerevoli, di non dover affrontare conseguenze, e che si ostina a non leggere nessi fra l’arrivo di moltissimi migranti in Italia, i tassi di criminalità allarmanti nelle maggiori città americane e il genocidio in corso a Gaza.

C’è un problema di memoria storica. È noto come in Italia sia pochissimo nota la storia del colonialismo italiano e del genocidio in Libia, e come anche nelle scuole si continui a raccontare la favola degli italiani brava gente. Lo stesso vale per gli olandesi che non ricordano il genocidio che hanno compiuto in Indonesia, i belgi quello in Congo. «E non sono eventi piccoli, segreti o irrilevanti».

Per fare i conti con i nostri passati ci vuole un sistema di giustizia internazionale che funzioni, perché Gaza ha scoperchiato l’inefficacia e l’irrilevanza di quello che abbiamo. «Non avrei problemi» dice Pappé «con un sistema di giustizia internazionale anche severissimo verso la Serbia, la Russia, i dittatori africani, la Corea del Nord. Ma se il sistema non è in grado di prendere le misure necessarie verso lo Stato criminale di Israele, di questo sistema non ce ne facciamo niente». E aggiunge: quello che vorrebbe vedere è l’esercito israeliano che se la vede con la marina turca o cinese a seguito di una deliberazione dell’ONU, e non con la gente di volontà buona delle Flotillas che porta aiuti umanitari. Ma basterebbero anche solo metà delle sanzioni inflitte alla Russia per fermare il genocidio.

Le sorti di Gaza saranno un indicatore delle sorti del mondo: Pappé non lo dice in modo «retorico», precisa, ma in senso storico. A quella che lui chiama «l’alleanza globale di Israele» (fatta anche di grandi aziende che si occupano di sicurezza, di industrie belliche, di cristiani sionisti, e in generale di quanti si oppongono in varie circostanze ai diritti umani) si è opposta dal 7 ottobre «una Palestina globale», formata dai milioni di persone che hanno protestato, non solo per la giustizia per il popolo palestinese ma anche per la giustizia ecologica, climatica, sociale, economica. «Per il bene dei più giovani» continua «dobbiamo sperare che il nostro cinismo non sia fondato e che ci sia speranza per un futuro diverso. La Storia non è lineare, è ciclica: siamo in un brutto capitolo, ma credo che di questo capitolo siamo alla fine. Io collego la fine di Israele con la fine del fascismo e del capitalismo estremo». Anche perché, se non sarà così, non riusciremo a gestire l’emergenza climatica e le migrazioni che sempre più ne seguiranno.