05 | 09 | 2025

Le storie sopravvivono a tutto: intervista a Irene Solà

Una conversazione con la scrittrice catalana sul suo amore per le storie e le infinite possibilità della narrazione

Dopo il successo indiscusso di Io canto e la montagna balla, romanzo con cui si è fatta conoscere al pubblico internazionale, e dopo la pubblicazione di Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, Irene Solà con l'uscita di L'argine si conferma un'autrice straordinaria, in grado di costruire un mondo letterario audace e sofisticato che non si ripete mai, approfondendo ed elaborando i temi che più le stanno a cuore fino ad attraversarli completamente. Le sue storie hanno sfumature gotiche, di folklore e magia non prive di allegria. Nuvole, caprioli, cani, fantasmi: la prospettiva adottata dall'autrice capitolo dopo capitolo non smette mai di stupire. Abbiamo avuto occasione di porle qualche domanda al termine dell'incontro a lei dedicato durante la seconda giornata di Festivaletteratura.


D: I tuoi romanzi suggeriscono l’idea che esiste la vita, esiste la morte e poi esistono le storie. E che le storie, o frammenti di esse, possono sopravvivere a entrambe. È così?

R: Penso che sia un modo molto bello di esprimere il fatto che le storie siano in grado di sopravvivere a tutto. Non sono sicura che lo avrei formulato così, ma mi piace moltissimo come lo hai espresso. Credo che le storie siano estremamente interessanti. Io sono innamorata delle storie, sono uno dei miei principali interessi da quando ho memoria: le storie che si ascoltano, quelle che vengono raccontate, ma anche le storie che si è in grado di creare o di immaginare.

D: I tuoi romanzi sono popolati da numerosi personaggi e prospettive diverse. E a me ricordano piante selvatiche che crescono in modo spontaneo e imprevedibile. Come riesci a tenere insieme tutte queste voci?

R: Mi piace molto il paragone che fai con i fiori selvatici o spontanei, perché in effetti per me il concetto di sorpresa è importante in un romanzo. Per me è fondamentale non sapere quale libro scriverò prima di iniziare a scriverlo. È importante imparare cose nuove, lasciarsi sorprendere dal libro, ascoltare il progetto, ascoltare le esigenze del libro. Iniziare a scrivere un romanzo per me è come imbarcarmi per un viaggio che io non so dove mi condurrà. Poi, mentre ci si lavora, si ha anche una responsabilità ossia quella di dare un senso a tutto, bisogna controllare i personaggi, controllare le voci. Perciò per me è molto importante cercare di capire quali siano le domande che mi pongo, quali siano le cose che cerco di indagare, e in che modo questi personaggi, queste storie, possano aiutarmi a riflettere su questo. Quando trovo un equilibrio, allora so di essere sulla strada giusta.

D: Benché siano molte le voci narranti presenti nei tuoi romanzi, sembra che una particolare attenzione sia rivolta ai corpi o alla loro assenza. Cosa ti affascina nel narrare i corpi - spesso femminili?

R: Nel mio ultimo romanzo [Ti ho dato gli occhi e hai guardato le tenebre, N.d.R.] ero molto interessata a riflettere sul corpo e sulla materialità in senso più ampio. Si potrebbe dire che sia un romanzo di fantasmi, perché è un romanzo popolato di fantasmi, di spiriti, di donne che sono morte e che vagano in una casa. E il fantasma è un personaggio che nella letteratura normalmente non ha un corpo. Non lo si può vedere, non lo si può toccare ma io volevo giocare proprio con questo elemento. Volevo scrivere una storia assolutamente materiale, ero ossessionata dalla materialità, dai corpi delle donne e da come invecchiavano, da come avevano figli, da tutto ciò che provavano nel corso della loro vita. Ma anche dai corpi degli animali, dal corpo della casa, dal corpo del paesaggio, dal corpo persino, direi, dell’oscurità. L’oscurità è qualcosa che ha quasi un corpo, che si può quasi toccare. E questo è un tema che ritorna sempre nei miei romanzi: l’interesse per il corpo. Credo che in tutti i miei libri convivano due spinte: un profondo interesse per l’intellettualità, le idee, la ricerca, l’indagine, e al tempo stesso qualcosa di più fisico, che ha a che fare con lo stomaco, con il cuore, con la colonna vertebrale, con ciò che si può sentire mentre si legge o mentre si vive.

D: La tradizione occidentale del viaggio dell’eroe propone un punto di vista unico e lineare, quello di un protagonista che affronta delle prove e raggiunge un obiettivo finale. Nei tuoi romanzi, invece, questa struttura viene decostruita per lasciare spazio alla polifonia. Quanto è importante per te sostituire l’eroe con una moltitudine?

R: Per me è molto interessante riflettere sulla narrazione e sulle storie e pormi delle domande al riguardo, non intenderle come qualcosa di neutro, ma comprendere che queste contengono una voce, una prospettiva, dei preconcetti, delle idee, delle intenzioni e giocarci, invece di dimenticarli o di fingere che non esistano. Così, ogni romanzo per me è un’esplorazione del modo in cui si possono raccontare le storie. È un’indagine su come funziona la narrazione e su quale potere abbia. Cosa c’è se si guarda dietro l’arazzo? Direi che questo è principalmente ciò che continuo a fare. In ogni libro, in ogni romanzo, cerco di capire, di giocare, di vedere quali opzioni, quali possibilità mi offra la narrazione.

D: In un’intervista precedente, hai menzionato il fatto che ci sono cose che ereditiamo senza poterle scegliere. Qual è però un’idea, un modo di pensare, o una convinzione che sei grata di avere ereditato?

R: Le storie, credo che le storie siano una cosa bellissima che ho ereditato, o almeno l’interesse per le storie e per il raccontare storie. Ne sono molto grata. E non solo alle storie in sé ma anche alla volontà o all’interesse di rifletterci e di guardarci dentro, di cercare di capire che cosa dicono di me, di noi e del mondo. Penso di essere molto grata di tutto questo. E trovo che questa domanda fosse molto bella. Grazie.