04 | 09 | 2025

Ma quale sogno americano?

La memoria e la violenza del reale Ocean Vuong

L’ultimo romanzo di Ocean Vuong, L’imperatore della gioia, si offre come un’epopea americana: più di quattrocento pagine in cui lo scrittore statunitense di origine vietnamita racconta la contemporaneità del suo Paese. È un romanzo lirico, costruito in forma dialogica, che attraversa la provincia americana restituendone i silenzi e le contraddizioni. Sotto la superficie della prosa, intensa ed evocativa, affiora però un cadavere. Non a caso Nadeesha Uyangoda ha definito questo libro un funerale: ciò che giace inerte, tra le pieghe della narrazione, è il corpo del sogno americano. È questo filo sotterraneo a tenere insieme le storie, sospese tra incanto e disincanto, promessa e fallimento.

Vuong appartiene a una generazione di scrittori che hanno fatto della propria biografia una lente per leggere la storia collettiva. Figlio di rifugiati vietnamiti, cresciuto nella working class americana, la sua scrittura non cessa di intrecciare intimo e politico, lutto privato e trauma nazionale. Come già in Brevemente risplendiamo sulla terra, il romanzo d’esordio accolto come un caso letterario, anche qui la materia narrativa si organizza intorno a un paradosso: l’impossibilità di separare l’amore dalla perdita, la bellezza dalla violenza, l’epica dalla cronaca.

La sua lingua è insieme lirica e spietata: procede per immagini che si avvitano su se stesse, come se la poesia — che resta il centro pulsante della sua opera — avesse contaminato definitivamente la prosa. Ne deriva una scrittura che è memoria e al tempo stesso incisione, capace di trasformare ogni dettaglio quotidiano in segno. È proprio questo il gesto più radicale di Vuong: fare della fragilità una forma di resistenza e del lutto un dispositivo di conoscenza.

Così, nel romanzo, il sogno americano non è un semplice sfondo, ma un corpo esanime che tutti i personaggi si trovano a dover vegliare. L’America di Vuong non è più la terra delle opportunità, ma il teatro di una lunga veglia funebre: un Paese che parla attraverso i suoi fantasmi. Se la scrittura di Vuong si radica in una biografia diasporica, la sua ambizione è però più vasta: raccontare l’America attraverso i suoi corpi vulnerabili, attraverso ciò che la nazione rimuove e insieme esibisce. In questo senso il suo lavoro si colloca in una tradizione che da James Baldwin a Toni Morrison ha fatto dell’esperienza marginale un prisma critico per l’intera cultura statunitense.

Mentre Morrison inscriveva la sua prosa in un registro corale, in cui la comunità nera ritrovava voce e genealogia, Vuong sceglie la via opposta: la lirica individuale, il flusso intimo che scava nella soggettività per raggiungere una verità collettiva. In entrambi i casi, tuttavia, ciò che emerge è la stessa diagnosi: il sogno americano, inteso come promessa di emancipazione, non regge se non al prezzo di rimozioni violente.

Vuong interroga ciò che resta di quell’idea, chiedendosi cosa significhi davvero oggi “American dream”. In un certo senso, gli Stati Uniti non possono farne a meno: hanno bisogno di questa chimera, indispensabile a mascherare la violenza originaria — il genocidio dei nativi, la rimozione su cui si fonda l’idea stessa di nazione. Potremmo dire, con Furio Jesi, che il sogno americano funziona come una macchina mitologica: non conta la verità storica, ma il meccanismo che produce e riproduce l’illusione. È un dispositivo d’amnesia, che perpetua l’incanto al prezzo dell’oblio dei risvolti più torbidi. Non sorprende allora che nei romanzi di Vuong la scena americana sia popolata di spettri. Per quanto giovane, l’America porta già il peso di fantasmi ossessivi: ciò che la cultura ufficiale rimuove ritorna con più forza. La scrittura di Vuong si colloca esattamente là dove la macchina mitologica tenta di cancellare e la letteratura insiste a ricordare.

«Bisogna vivere nel sogno»: l’America si regge su questa nebbia che la avvolge, e l’arte — per Vuong — ha il compito di diradarla. Make America Great Again: ma quale again? A quale tempo dell’“ancora” rimanda quel motto? Per chi vive in una cittadina del Massachusetts circondata da industrie, ettari di campi di mais e vicini con il cappellino rosso di Donald Trump calato sulla fronte, l’again non può che coincidere con l’infanzia: con un’età dell’innocenza che la politica trasforma in feticcio collettivo. È qui che la retorica nazionalista si salda a un impulso psicologico di vulnerabilità, alla nostalgia di un passato mai realmente esistito. L’again funziona come un tempo mitico: non storico ma sospeso, sempre invocato e mai raggiunto. Vuong scardina questo dispositivo proprio laddove mostra l’impossibilità di tornare indietro, l’inconsistenza di quell’“ancora”.

Dove il trauma del capitalismo si innesta più visibilmente sul mito americano, si colloca l’immaginario di Vuong. Nel suo ultimo romanzo, il cibo non è mai semplice nutrimento: è un dispositivo culturale, un sintomo. Il fast food diventa la quintessenza dell’impresa americana: promessa di accessibilità e cura home-made (torte della nonna come dolce per tutti!), che si rivela però gigantesco microonde travestito da cucina. È qui che il mito si consuma — letteralmente.

Vuong lo sa per esperienza diretta. Da adolescente serve hamburger e patatine nei McDonald’s del Massachusetts, mentre viveva in una casa popolare con la madre, la zia, la nonna. La madre non lo esorta a diventare ciò che sogna — astronauta, scienziato, poeta — ma lo implora di restare da McDonald’s non perché vi intraveda un futuro, ma per mantenere basso il reddito familiare ed evitare lo sfratto. Ecco allora il paradosso del progresso americano: avanzare significherebbe perdere il sussidio, e quindi la casa, precipitando nella miseria. Il sogno americano si rovescia: non è ascesa, ma stasi forzata; non promessa di emancipazione, ma ricatto silenzioso.

Il protagonista Hai, lavora, come ha fatto Vuong, in un fast food. Non è l’unica cosa che i due hanno in comune: entrambi hanno vissuto in situazioni molto precarie insieme alle rispettive madri, entrambi si sono presi cura di una donna anziana di nome Grazina. Hai diventa quindi una sorta di alter ego di Vuong, con cui condivide un passato da cui sembra non riuscire a staccarsi. È qualcosa che hanno in comune tutti i personaggi di L’imperatore della gioia: i loro ricordi riaffiorano costantemente, tanto da interrompere il normale fluire delle loro vite. Grazina in particolare, affetta da demenza, trascina nel suo passato anche Hai, che si trova costretto a indossare le vesti del sergente Pepper e a tornare nella Seconda Guerra Mondiale da cui lei era fuggita.

Sia Hai che Grazina sono immigrati, così come Uyangoda e Vuong, che si riconoscono una nelle esperienze dell’altro e riflettono su cosa significhi essere scrittori figli della diaspora. Vuong spiega di sentirsi sempre in un terzo spazio, quello fra l’essere un autore nativo vietnamita e uno scrittore assimilato americano. E per raccontare questo spazio usa il titolo del libro di Uyangoda, Acqua Sporca. Il luogo da cui scrive non è trasparente, è torbido, è acqua sporca che «contiene tutto». Vuong non vuole perseguire una purezza, vuole raccontare la sua storia e la storia di tutti così com’è, difficile da leggere, piena di spazzatura, ma onesta.

L’autore si schiera a difesa di questa torbidità e contro la concezione della scrittura romanzesca come lucida, invisibile, senza fronzoli. Gli hanno insegnato che un grande novelist sta sullo sfondo, come un maggiordomo che presenta la storia su un vassoio, ma a Vuong, poeta prima di tutto, l’idea di non far vedere le sue pennellate non va a genio. Come Van Gogh, Vuong rivendica la sua autorialità e pur di far notare il suo sforzo, la sua mano dietro le parole, getta il pennello e dipinge direttamente con il tubetto di colore.

Per spiegare ancora meglio la sua idea di romanzo, ma anche per esprimere il suo affetto verso il nostro paese, Vuong racconta di un episodio accaduto a Milano, a Palazzo Reale, dove dopo aver letto alcune delle sue poesie i suoi editori lo portarono a visitare un’ala di solito chiusa al pubblico. «Era buio, ma quando i miei occhi si sono abituati mi sono trovato in una stanza bellissima, decorata in stile barocco, ma il muro davanti a me era pieno di crepe enormi». Erano state causate dai bombardamenti americani e il Comune di Milano aveva deciso di tenere il muro così, in memoria della violenza perpetrata.

«Era la prima volta che vedevo qualcuno scegliere di tenere qualcosa di rotto, solo per ricordare. Ho guardato quella parete e ho pensato: è proprio così che voglio che sia il mio libro».