07 | 09 | 2025

Mantova è un cerchio che non si esaurisce

Festivaletteratura raccontato da Nadeesha Uyangoda, scrittrice e ospite nella XXIX edizione

Anche quest'anno Festivaletteratura ha chiesto a un autore presente a Mantova un commento a caldo sulla ventinovesima edizione che si sta per chiudere. Il racconto di questa edizione è stato scritto da Nadeesha Uyangoda.

Per leggere il comunicato stampa finale consultate l'area stampa.

C’è qualcosa di circolare nell’arrivare a Mantova a inizio settembre, un rassicurante rituale di fine estate che non si esaurisce mai, ma si rinnova in parole nuove e vecchie tradizioni. Mi accoglie la canicola di mezzogiorno, mi si appiccica alla pelle mentre trascino sui sampietrini la valigia verso l’albergo, e le ombre si stanno già allungando verso piazza Sordello. Ovunque, Magliette Blu organizzano, rispondono, scrivono e si prodigano in gentilezze. Sono luminosi puntini che costellano Mantova per cinque giorni. Mi appaiono come la prova più lampante e tangibile della hopeless kindness di cui vorrei parlare quel mercoledì sera. Una volta qualcuno mi ha descritto Festivaletteratura come il posto dove puoi sederti al ristorante affianco a un premio Pulitzer, camminare dietro a un premio Strega e stringere tra le mani la copia fresca di stampa e autografata di una esordiente – senza che ci sia una gerarchia ordinata tra queste esperienze, soltanto la magia di incontri inaspettati. Da allora, a beneficio degli scrittori stranieri, è così che racconto questo luogo straordinario. Lo dico anche a Ocean Vuong mentre corro verso Palazzo San Sebastiano, le colonne ammantate di blu Festivaletteratura faranno da sfondo alla nostra conversazione. Mi agito ancora moltissimo nel preparare le domande per gli autori, mi chiudo dentro al libro – a rileggere e prendere appunti – fino all’ultimo, motivo per cui sono in ritardo. «You can ask me whatever you want», è però l’assoluzione che scioglie le mie riserve. Mantova dilata il tempo, ci proietta dentro mondi possibili, accende scintille, porta la bellezza e l’orrore del mondo dentro le sue mura, avvicina la geografia, crea comunità. Sopratutto, svela ed espone gli scrittori e le scrittrici, gli uomini e le donne, che si muovono per le sue piazze assolate e le viuzze acciottolate. Ne si notano con chiarezza e più da vicino le voci che si incrinano, la commozione negli occhi, lo slancio di un’intuizione, l’eccentricità di un tic. Qui i libri non solo sono trame e storie e stili, semmai sono la cassetta degli attrezzi che apre le porte per schierarci contro le storture del mondo – le guerre, i genocidi, le morti insensate –, per domandarci qual è il nostro ruolo nella Storia, per battere una strada nuova nella natura ferace e nella ferocia umana. Ci spalancano gli occhi davanti alla meraviglia di una frase bellissima che si rivela crepata e spezzata proprio per racconta una violenza che avremmo detto indicibile. Si bagnano le guance di Vuong nel ricordarci quanta poca poesia ci sia nei sogni quando non sono altro che chimere, illusioni baluginanti per far luce all’oblio. Quanto stupore invece nella scoperta delle imperfezioni, della spazzatura, delle fratture. Viviamo in un momento in cui è più facile rifugiarsi nella curva confortevole dell’abbaglio di essere al di fuori di ciò che accade intorno a noi; che il confine che separa le nostre vite sicure da quel che succede in Mare Aperto o nella Vita appesa della striscia di Gaza, sia sufficiente per dirci, se non proprio innocenti, almeno estranei. Invece parole come quelle di Adania Shibli, Atef Abu Saif, Elvira Mujčić ci spingono a sconfinare, a scoprirci coinvolti e responsabili, a scovare un linguaggio nuovo per raccontare da questa parte quel che avviene oltre la cortina di nebbia dell’indifferenza, a perdersi tra le rimanenze delle storie. Ritornare a Mantova significa desiderar provare di nuovo quel senso di spaesamento: trovarsi al contempo qui e altrove, dentro e fuori dai libri. Sempre sul confine – non come soldati, ma come testimoni all’erta. Tornare equivale ad abitare un limbo, uno spazio scomodo eppure necessario. Ecco allora che l’acqua sporca di questi giorni mantovani non è altro che il residuo dei gesti, delle parole, dei sentimenti che abbiamo condiviso. È ciò che si sedimenta in noi mentre cerchiamo di di ricordare, mentre la letteratura fa quel deve fare sempre – smuovere qualcosa, disallineare, causare piccoli smottamenti. Per questo mi rimangio l’incipit di questi saluti: non è vero che c’è qualcosa di circolare nell’arrivare a Mantova. Il tratto con cui viene tracciata la portata di questi giorni è discontinuo – pesante e nero, grigio e leggero, una linea che si inspessisce e si assottiglia, che si muove come le onde su un monitor e ci assicura che siamo vivi perché non è inerte. È un cerchio mancato: la matita a un certo punto si stacca e sul foglio resta una figura cava, un guscio in parte fratturato e in parte vuoto. Torneremo l’anno prossimo e quello seguente ancora, nella luce di fine estate che si accorcia, non per chiedere a Mantova di ricomporci, di chiudere quel cerchio, ma a domandare a Festivaletteratura di frammentarci di più, di scompaginarci meglio.