In un momento storico sospeso tra impotenza e urgenza, com’è quello cui stiamo assistendo senza trovare le parole, un dialogo corale e necessario ha messo a confronto tre voci che, invece, della parola hanno sempre saputo fare strumento politico: lo scrittore e giornalista Omar El Akkad (Un giorno tutti diranno di essere stati contro, 2025), la storica e saggista Paola Caridi (Hamas 2023, Il gelso di Gerusalemme, 2024) e il giornalista Gad Lerner (Gaza: odio e amore per Israele, 2024).
Al centro della riflessione, che riesce ad essere polifonica senza sforzare una visione univoca e rassicurante, non ci sono soltanto Gaza e il 7 ottobre, ma soprattutto una domanda ineludibile: dove siamo noi, oggi, di fronte a quello che sta accadendo?
Caridi pone fin da subito l’accento sul nodo cruciale della corresponsabilità: non è rilevante speculare su cosa accadrà, ma è questione di comprendere ciò che noi – europei, occidentali, cittadini spettatori e contribuenti – siamo chiamati a riconoscere guardandoci allo specchio. Gaza ci obbliga a interrogarci sulla nostra postura, sul nostro silenzio, sulla complicità che deriva tanto dalle scelte politiche quanto dall’indifferenza.
Nella testimonianza di Omar El Akkad risuona l’impotenza e un senso di profonda, per quanto non voluta, complicità con il massacro:
«Solo una società completamente sociopatica può metterti nelle condizioni di sapere come combattere un genocidio, quindi noi siamo costretti a inventarci dei modi. E non sono mai quelli giusti».
Ciò che sicuramente non è giusto è aspettare il giorno in cui tutto sarà passato e solo dopo alzare la testa e manifestare la propria indignazione:
«Quel giorno non sarà un momento di celebrazione, perché non smetteremo mai di chiederci quante morti siano state necessarie prima di riuscire a capire l’orrore che stiamo perpetrando. [...] Questa conversazione, questo tentativo di mettere la propria opinione alla prova, è un lavoro che tutti dovranno fare con la propria coscienza».
Gad Lerner, che porta nel dialogo la sua identità ebraica, raccontando come i crimini di Israele siano oggi per lui una ferita aperta nell’ebraismo stesso, denuncia però un ulteriore elemento: la persistente idea, vigliaccamente dissimulata, che Israele faccia “il lavoro sporco” anche per l’Occidente. Una narrazione che, lo ribadisce con forza Caridi, non può e non deve riguardare i cittadini, ma che rimanda a quell’approccio colonialista che ancora riesce a propugnare l’idea che esistano popolazioni “superflue”, da eliminare.
E l’eliminazione viene portata avanti non solo fisicamente - in una guerra in cui i morti, letteralmente incalcolabili, sono condannati a restare senza nome - ma anche attraverso l'utilizzo infido delle parole. I nomi cancellati delle vittime, il silenzio che diventa connivenza, la capacità di alcuni Stati di rendere invisibili intere popolazioni: tutto questo è parte di una guerra linguistica che prepara il terreno alla rimozione. «Il silenzio è ciò che va combattuto», ha ribadito Caridi, ricordando come la partecipazione quotidiana – manifestare, rifiutare l’indifferenza, assumersi la responsabilità delle proprie scelte – sia il più necessario degli atti politici.
Con questo, è d’accordo anche El Akkad:
I muri non vengono giù mattone per mattone; vengono giù perché si picchia, si picchia, e un giorno tutto crolla. Non si può prevedere il momento esatto in cui succederà, ma se succede succede perché ci sono state abbastanza persone che hanno picchiato contro questo muro. Lentamente sta succedendo, in questo momento, e per quanto mi riguarda, se dovessi scegliere, scommettere tra la forza della gente e l'istinto di preservazione dei politici, io sarò sempre dalla parte della forza della popolazione - ed è qui che entra in gioco la mia speranza.
«Niente è sufficiente e tutto conta», questo il mantra che Omar El Akkad ripete a se stesso, e che consegna nelle mani del pubblico insieme ad un invito alla responsabilità individuale: oggi più che mai, tutti quanti sono chiamati a fare qualcosa, anche la più piccola, abbandonando incoerenza e retorica. Bisogna ritrovare il proprio corpo politico e alzare la propria voce, per non lasciare che siano altri a decidere quale pagina di storia vogliamo occupare.