Quando si parla di 'cucina etnica' si fa riferimento nella maggior parte dei casi alle ricette di Paesi africani o del Sud-ovest asiatico. Subito il pensiero corre ad immagini di pollo al curry, cous cous o falafel. Eppure, la cucina di qualsiasi Paese può essere considerata “etnica”, se osservata da oltre i suoi confini. Perché allora questo aggettivo non viene mai accostato a piatti della cucina francese o inglese?
Mareme Cisse, ristoratrice di origini senegalesi ma da più di vent’anni residente ad Agrigento, e Leila Belhadj Mohamed, giornalista geopolitica esperta di area SWANA, dialogano cercando di decostruire questo e altri miti legati alla rappresentazione delle identità marginalizzate.
Nel suo ristorante "Ginger food & people" Mareme propone piatti in cui si mescolano le influenze senegalesi e quelle siciliane, piatti che nascono dalla sperimentazione e dal lavoro con colleghi e amici. Per questo motivo Mareme è infastidita dalla definizione di “etnico” legata al cibo del suo ristorante: non c’è niente di etnico in molte delle sue ricette, che talvolta rispecchiano più i gusti italiani che non quelli del suo Paese d’origine e che sono prodotte con cibi a chilometro zero. Spesso inoltre, al cibo considerato etnico vengono legati anche concetti di bassa qualità o scarsa salubrità.
Mareme racconta la sua storia in Sogni di zenzero testimoniando l’impatto che una rappresentazione stereotipata ha sulla vita quotidiana. Quando ha aperto "Ginger food & people", da lei considerato come “un quinto figlio”, Cisse ha infatti dovuto affrontare il peso di essere una donna nera e non sono stati pochi i momenti in cui il suo lavoro è stato sottovalutato solamente a causa di pregiudizi.
Il vissuto di Mareme purtroppo non è singolare, ma rispecchia quello di molti giovani con background migratorio residenti in Italia. La quota di lavoratori extra-EU nelle cucine italiane è rilevante, in aumento costante negli ultimi dieci anni, eppure nel nostro Paese, con una storia di immigrazione recente, lo chef di un ristorante viene immaginato sempre come un uomo bianco. È a causa di questi stereotipi che molti dei giovani con una storia famigliare di migrazione optano per l’estero, dove la decostruzione dell’immaginario razzista viaggia a un ritmo più veloce.
Le cose si complicano soprattutto per le donne, la cui attività in cucina è elogiata quando avviene all’interno delle mura domestiche e screditata non appena approda in contesti professionali. Ad esempio, nel 2024 in Italia, solo l’8% delle attività di ristorazione facevano capo a donne. Anche in questo caso gli stereotipi hanno effetti tangibili sulla vita quotidiana. Sono molte, infatti, le donne che non riescono a trovare un lavoro nonostante possiedano le competenze e sono molte altre le donne che, influenzate dai pregiudizi, si autolimitano nella ricerca di un impiego. Proprio per questo Mareme Cisse propone corsi di cucina al femminile, nei quali, oltre ad affinare le proprie capacità, le donne si aiutano a vicenda e acquistano fiducia in se stesse. La cucina del suo ristorante allora diventa anche un modo di fare rete.
Sogni di zenzero, edito da Slowfood e scritto in collaborazione con Lidia Tilotta, nasce con l’obiettivo di proporre una contronarrazione diversa da quella dominante, che rappresenta le persone migranti sempre come vittime bisognose di aiuto o come casi di successo che, nella loro eccezionalità, riconfermano lo stereotipo di inferiorità. Alternando episodi della sua vita a ricette e immagini Mareme Cisse racconta di incontri e cambiamenti e dà alla cucina il potere di creare comunità grazie alla mescolanza di diversi vissuti. La storia di Mareme non è eccezionale o esotica, bensì comune a più persone, esattamente come le sue ricette.