Quando si parla, specie in uno spazio come un festival letterario, di videogiochi o di qualsiasi altro prodotto di quella che spesso è definita cultura bassa, c’è spesso una spinta alla ricerca di legittimazione della stessa. Fabio “Kenobit” Bortolotti è al Festival innanzitutto in veste di dj, ma prima del suo set ci regala un’ora di viaggio nella storia di Bubble Bobble, durante la quale, mostrare la profondità narrativa di questo gioco apparentemente semplice è la sua missione.
Un'immagine del videogioco: (caricamento...)
Il leggendario Bubble Bobble, arrivato in Italia nel 1987, all’apice dell’età dell’oro dei videogiochi arcade, ha conquistato coi suoi cabinati ogni baretto, ogni tabaccheria, ogni stabilimento balneare. Kenobit vuole rendere giustizia all’impronta che esso ha lasciato nel mondo videoludico ed al suo essere prova manifesta della possibilità dei videogiochi di farsi veicoli narrativi di alto livello. Vuole anche rendere omaggio allo sviluppatore del gioco, Fukio Mitsuji, la cui morte prematura, nel 2008, neanche le riviste specialistiche hanno reputato degna di un trafiletto.
Bubble Bobble è un gioco autoriale, dice Kenobit. Successivamente illustra le dinamiche del gioco (sparare bolle contro i mostri, intrappolarli o imballarli, farle scoppiare) e la sua trama: due bambini trasformati in draghetti devono affrontare una sorta di catabasi e affrontare svariati mostriciattoli per liberare, dopo aver percorso cento livelli, le loro sorelline o amiche o fidanzatine. Detto così, di autoriale sembra esserci poco; e probabilmente anche ai ragazzini che affollavano le sale giochi dev’essere inizialmente sembrato un videogame come tanti altri, anche se più bello.
Solo che, dopo un po’, si verificavano dei fenomeni.
Fenomeno uno. Spiaggia della Riviera del Ponente Ligure. Kenobit ha sei anni e sta mangiando un gelato. Un bambino che avrà un anno in più si avvicina e gli dice: se mi dai quel gelato, io ti insegno il trucco del power-up. Affare fatto: è un lungo cheat code che consente di muoversi più velocemente.
Col senno di oggi, il fatto sorprendente è un altro: il gioco viene dal Giappone, nessuna rivista specializzata riporta questo codice, e naturalmente non esiste ancora internet nel modo in cui lo intendiamo oggi. Ciò significa che, come nella tradizione dei poemi epici, questa storia è passata da chissà quante bocche a chissà quante orecchie, chissà in cambio di quanti gelati (in un mondo ben più scollegato di questo e con la Guerra Fredda in corso) e dal Giappone è arrivato a diffondersi in Italia.
Fenomeno due. Se arrivi al ventesimo livello senza perdere neanche una vita, ti si apre un portale diretto a un livello segreto. Non è difficilissimo arrivare al ventesimo livello senza perdere neanche una vita, ma è bensì complicato capire che è questo il criterio. Nel livello segreto lo stolto, «annebbiato dalla ricerca dei punti», corre ad afferrare diamanti, e non si cura delle strane scritte in codice alla base della schermata. Il piccolo Kenobit e i suoi amici invece sono curiosi e riescono insieme a scattare una polaroid della scena, ma non arrivano a capire cos’hanno davanti: una crittografia, con tanto di chiave sopra. Il testo, decodificato, dice: «se vuoi tornare al tuo vecchio aspetto, usa il potere dell’amicizia per combattere con me!».
Una gif illustrativa: (caricamento...)
Fenomeno tre. Quello del livello segreto è un messaggio, non l’unico, che esorta a giocare sempre in due: non solo perché è più facile, ma anche perché vincere da soli sblocca solo il bad ending. Vincere insieme porta a un good ending (i draghetti si trasformano e liberano le bambine), ma un messaggio a sorpresa dice che non si è ancora raggiunto il true ending e fornisce un codice, crittografato nella solita chiave, che permette di sbloccare la modalità Super Bubble Bobble. E allora si rifà tutto, in una versione più difficile della precedente, e se si vince nuovamente (e ancora in due) si ottiene il finale vero, col ricongiungimento dell’intera famiglia e il salvataggio di mamma e papà.
Un video della "run" completa: (caricamento...)
Raccontare questa storia è raccontare di una comunità grandissima che ha scoperto insieme questi e altri segreti, per tentativi ed errori, e che se li è tramandati come un sapere iniziatico. Vuol dire, però, anche rendere giustizia, finalmente, all’inventiva, all’attitudine al design e allo spirito poetico di Fukio Mitsuji. Dopo il grande successo di Bubble Bobble, Mitsuji fa la scelta controcorrente di non ripetersi quando realizza il sequel, Rainbow Islands, e poi di diventare, come lui stesso ha affermato in un’intervista, «uno che pianta alberi» e non un albero. Fonda dunque una scuola di game design, dalla quale escono professionisti incredibili. I suoi allievi lavorano, fin dal principio, proprio sulle conversioni di Bubble Bobble per le console domestiche, perché niente è più lontano dalla sua mentalità che trattare la propria creazione come se fosse sacra.
Raccontare questa storia vuol dire anche scegliere, finalmente, un approccio non nostalgico nel parlare di un videogioco degli anni ’80. «Odio il termine retrogaming, per quanto lo usi molto» dice Kenobit. «Se leggi Dante o Kafka, non dici di star facendo retroreading». Alcuni giochi usciti decenni fa hanno valore di per sé, al netto della nostalgia che possono suscitare in chi li ha avuti come compagni delle estati dell'infanzia.
Che sia possibile fare cose vecchie in modo nuovo, valorizzando vecchi oggetti invece di rimpiangerli, lo prova lo stesso Kenobit quando, giusto una mezz’ora dopo l'evento su Bubble Bobble, attacca un gameboy alla console e fa ballare piazza Leon Battista Alberti assieme ai suoi suoni a 8 bit. Non c’è trucco e non c’è inganno: funziona tutto davvero, e Kenobit ci tiene a farsi sottoporre all’ordalia di suonare una canzone scelta sul momento dal pubblico.
La discografia dell'autore si può trovare al seguente link: (caricamento...)
Il resto della scaletta è molto vario: dall’apertura con Disco Samba ai canti partigiani, dagli Slayer a un remix techno della sigla italiana di Ken il Guerriero. Anche questa, un feticcio facile per i nostalgici: ma il messaggio di Kenobit è chiarissimo, con la malinconia si fa poco, e con mezzi vecchi si può (come fa lui stesso) comporre qualcosa di completamente nuovo. Magari prendendo dal passato recente qualcosa di positivo: la capacità di stare off-line, di non cercare su Google anche quello che si vorrebbe sapere subito; la voglia di vivere off-line, e anche la voglia di vivere un internet diverso da quello che oggi prevale, fatto non di scelte di mercato e di ottimizzazione del profitto, ma di condivisione libera e trasparente.