Breve storia del clima in Italia. Una specie di libro epico, con l’ambizione di raccontare la storia del nostro paese dal punto di vista del clima. Luca Mercalli parte dal racconto di un singolo albero, di un abete bianco e colossale: l'Abete del Principe di Lavarone, nato nel 1760 e morto nel 2017. Ogni porzione della sua corteccia, ogni foglia, è fatta di clima, dei climi della sua lunga storia.
Attraverso gli anelli del grande albero quindi si poteva vedere indietro nel tempo fino a 250 anni fa. Lo stesso periodo in cui nacquero i primi osservatori meteorologici. Ma si può andare ancora più indietro, osservando le curve dendrocronologiche del legno utilizzato negli edifici antichi. O leggendo cronache di storici e letterati, che ci permettono di conoscere il clima fino ad arrivare all’epoca romana. E ancora più indietro, grazie ai ritrovamenti e ai fossili, fino a cinquemila anni fa.
Gli eventi climatici che riscopriamo grazie a queste ricerche si legano ad eventi storici importanti: nel Risorgimento i Piemontesi riescono a vincere battaglie contro gli Austriaci allagando la campagna grazie alle forti piogge di quel periodo. Vulcani esplodono determinando la fortuna o la sfortuna di popoli e nazioni a causa dello zolfo che oscura il sole. E raffreddano il pianeta. Così negli anni dal 536 al 545, quando le eruzioni sono molte e il cielo diventa per lunghissimo tempo opaco: gli anni peggiori della storia dell’uomo, con perdita di raccolti, carestie, pestilenze. Nel 1257 esplode un vulcano in Indonesia e piombiamo in una piccola glaciazione. Fino all’800. Nell’inverno del 1708 ghiaccia la laguna di Venezia, gli artisti la dipingono e Vivaldi scrive l’inverno delle sue Quattro Stagioni. I violini di Stradivari non sono riproducibili perché il legno usato allora era unico, cresciuto nel freddo come mai più sarebbe stato.
Tutto influenza tutto: accadimenti lontani influenzano la nostra vita, la nostra storia. Scoppia un vulcano in Sud America, si spostano popolazioni barbare colpite dalla carestia e crolla l’impero romano. Abitiamo il clima, tutti insieme. «Possiamo sostituire la geopolitica con la aeropolitica?», chiede Annalisa Metta a Luca Mercalli. L’aria non ha confini, è un bene comune. Che quindi viene maltrattato. E la gente è costretta a scappare. Gli atolli del Pacifico stanno scomparendo e la gente sarà costretta ad emigrare, a lasciare la propria terra per chiedere poi asilo. Il clima è la differenza tra il deserto e l’erba verde, tra l’agricoltura e la desolazione. Il clima è anche concausa di ulteriori disuguaglianze: i poveri sono quelli più colpiti dai cambiamenti. Non solo gli Stati poveri, anche le persone povere che abitano in paesi benestanti. Siamo alle soglie di un clima inedito: prima il problema era il raffreddamento, ora è il riscaldamento, che cambierà faccia al nostro Paese. E il conto arriverà per tutti, e abbiamo tanto da perdere.
Abbiamo i nostri beni a rischio: una quantità immensa di tecnologia molto vulnerabile, come le alluvioni in Romagna hanno dimostrato. La società va sotto stress e si impoverisce. La strategia di adattamento funziona a metà: dove investi può funzionare, ma è a tempo. Perché se si arriva alla temperatura più alta mai registrata in Sicilia, nel 2021, di 48 gradi, non esiste adattamento; stiamo scherzando con il fuoco. E la retromarcia cui si assiste in questi ultimi mesi è un enorme problema. Si può ancora scegliere tra un aumento di due gradi o di cinque entro la fine del secolo. Due gradi saranno un problema ma si può sopravvivere, con cinque il problema sarà la sopravvivenza del genere umano. Fino a ieri ci si lamentava per la lentezza con la quale si affrontava il riscaldamento globale. Ora si sta tornando indietro e non si fa neppure quel poco che si faceva prima. Questo ci porterà tutti nel baratro. Perché quando arriveranno le prime batoste (che in verità hanno già iniziato a succedere) sarà ormai troppo tardi. Non esistono altre spiegazioni: non esistono i cicli naturali, l’influenza del sole, il calore della terra. Il caldo attuale è solo colpa dei gas serra liberati. E questa, forse, è anche la buona notizia: perché siamo stati noi a farlo e noi possiamo rimediare.