La comunicazione si è sviluppata nel corso della storia come bisogno primario dell’uomo: proprio per questo ogni società e comunità ha plasmato il proprio idioma in base alla mentalità e alle abitudini. Ad oggi, le lingue si classificano in tre categorie:
Vera Gheno, a partire da tale divisione, sottolinea come certi aspetti della nostra vita, quali il parlare, non siano realmente automatici, bensì riflettano la volontà di effettuare istintivamente il minimo sforzo e dunque agire per consuetudine. Se si riflettesse, si comprenderebbe che non c’è cosa più politica della lingua.
Un motivo per cui si è diffuso ed uniformato il maschile sovraesteso è ricollegabile a secoli di impostazione patriarcale e normalizzazione del ruolo di predominanza dell’uomo. Il rapporto, allora, tra linguaggio e forma mentis è non solo biunivoco, quanto di subordinazione, ed è pertanto che l’estensione del femminile ad ambiti o, semplicemente, a ruoli cui in passato non faceva - e non poteva fare - riferimento stupisce, spiazza, sconvolge.
Attraverso una sola lettera, una “a” in più o in meno, si porta avanti una battaglia di identità e di riscatto che ancora non si è totalmente espressa e, soprattutto, divide in primis le donne stesse. Dalla Boldrini con la sua risposta tagliente «Grazie, deputata» al leghista Grimoldi, alla disputa tra Mattarella e la Casellati alla musica, in cui, da un lato, Beatrice Venezi dichiara «Le professioni hanno un nome preciso e, nel mio caso, è “direttore d’orchestra”» e dall’altro Oksana Lyniv, che ritiene che «La lingua è lo specchio della società e [...] “maestra” e “direttrice” saranno una scelta automatica».
Oggi come non mai le parole sono l’arma più potente che si possa utilizzare e, infatti, guidano le marce del progresso. Il femminile sta smuovendo le coscienze e aprendo gli occhi su delle dinamiche cicliche che da secoli ledono l’uniformità e la concordia tra le genti. La causa linguistica risuona ovunque: alcuni Paesi - ad esempio la Francia e la Germania - tentano di esprimersi includendo entrambe le desinenze, mentre altri, menzionando la Spagna e la Svezia, preferiscono “agenderizzare” per evitare andare di discriminazione in discriminazione.
E l’Italia? A volte l’impiego dello schwa o di ambo le terminazioni non basta, sembra una toppa più piccola del buco. È divenuta celeberrima la decisione dell’Università degli Studi di Trento del marzo 2024 di stilare il proprio Regolamento utilizzando come unico genere il femminile, destabilizzando uno Stato intero che, per la prima volta, ha visto, letto, sentito parlare in un modo inatteso ed imprevedibile, che voltava le spalle a tutta la storia nazionale.
«Perchè gli uomini, quando hanno cominciato ad acconciare i capelli, sono diventati subito “i parrucchieri” e non “le parrucchiere maschi?» si chiede la Gheno, ribadendo nuovamente la motivazione per cui il cambiamento della lingua necessita inevitabilmente del simultaneo cambiamento di mentalità, poiché qualsiasi espressione con la finalità di comunicare un concetto si rifà all’idea del concetto stesso, che è intersecata alla nostra concezione di ruoli, gerarchie e potere.