Se fino a poco tempo fa la depressione non era riconosciuta come una patologia - soltanto dal 1980 il “disturbo depressivo maggiore” è infatti entrato a far parte del DSM-3, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - il ricercatore Gioele P. Cima ha messo in luce come al giorno d’oggi il concetto sia ben presente, seppur in maniera poco chiara, spesso ambigua, nell’immaginario di tutti.
Dialogando con il pubblico nel corso di una lezione orizzontale, Cima ha tracciato un percorso sulla depressione attraverso secoli, culture e correnti di pensiero differenti, dimostrando come si tratti di una patologia tutt’oggi divisiva per quanto concerne la definizione - c’è chi parla di sindrome, chi di disturbo - e di matrice sostanzialmente occidentale, pertanto non concepibile in maniera univoca e universale.
Ippocrate parlava infatti di una melanconia (a livello etimologico “bile nera”, con una sfumatura prettamente fisiologica) e nel Rinascimento chi versava in tale condizione brillava di un'aura di ricercatezza ed eleganza, languore superiore sfoggiato dai nobili; in Giappone similmente si fa riferimento a un “raffreddore dell’anima” (kokoro no kaze), tristezza estrema ma anche elevazione spirituale, mentre soltanto nel XX secolo il concetto ha preso forma nell’accezione più moderna.
Così come numerose altre espressioni trafugate dal linguaggio medico che ormai popolano il lessico quotidiano (quanto spesso si sente infatti parlare di ansia, isteria e depressione, in assenza delle specifiche diagnosi?) la depressione ha negli ultimi anni inesorabilmente assorbito in sé altri disturbi, quali per esempio la distimia, o emozioni, come più banalmente la tristezza.
I presenti si sono interrogati proprio sul labile confine tra queste due condizioni, depressione e tristezza, tanto diverse ma tanto affini, in cerca di parametri oggettivi per scindere e distinguere, sancire una volta per tutte quanta tristezza sia da considerarsi normale e quanta invece patologica, attraverso considerazioni e interpretazioni a livello personale e sociale.
Il peso che grava sulla depressione dal punto di vista sociale ha portato Cima a parlarne come di un’ «etichetta che mangia l’esperienza», una condizione autoconclusiva, che non necessita di spiegazioni dal momento che racchiude in sé quanto agli altri importa e basta sapere, laddove invece la tristezza, frutto di cagioni ordinarie e ricorrenti, esige di essere motivata, intimando un grado di apertura e giustificazione a cui l’individuo non sempre è disposto.
Ne è emerso che anche l’autodiagnosi di tale patologia abbia precise motivazioni sociali: si ottiene pertanto una lettura della depressione come un fenomeno molto complesso, da considerarsi in primo luogo dal punto di vista scientifico e medico, ma incisivo anche a livello storico, antropologico e relazionale.