04 | 09 | 2025

Rinominarsi per appartenersi, scrivere per interrogarsi

Sradicamento, scrittura, giardinaggio e curiosità: il mondo letterario di Jamaica Kincaid

Nata ad Antigua e residente da molti anni nel Vermont, Jamaica Kincaid ha fatto della propria biografia la materia prima vivente di un’opera letteraria unica, segnata dal rapporto costante con le conseguenze del colonialismo, con lo sradicamento e la ricerca di sé. L’isola caraibica da cui proviene è insieme luogo reale e metafora, crocevia di approdi forzati. Prima terreno della colonizzazione europea e oggi destinazione turistica globalizzata. In questo ridotto, eppure, stratificato territorio Kincaid ha individuato la matrice di un pensiero che interroga continuamente la geografia, la storia e i rapporti di potere, senza mai concedersi consolazioni.

A ripercorrere i temi centrali della narrativa di Kincaid è la voce brillante di Donatella di Pietrantonio che la intervista mentre l’autrice interviene da remoto. Per definire il perimetro dell’opera letteraria di Kincaid è importante partire da un dato anagrafico: in giovane età, trovandosi a vivere da sola negli Stati Uniti e mentre è assunta come au pair, decide di cimentarsi nella scrittura con un nom de plume, quello che noi tutti oggi conosciamo.

«Dare un nome significa possedere»

ripete più volte e «se Colombo ribattezzava i territori scoperti per affermare un dominio», per Kincaid il gesto di rinominarsi equivaleva a reclamare la piena proprietà di sé. Non è un caso se, dopo aver acquisito la cittadinanza statunitense, l’autrice ha legalmente cambiato nome anche sui documenti. Provenendo poi da un contesto famigliare in cui la scrittura come lavoro retribuito appariva un’idea remota, quasi inconcepibile, quel nome le ha permesso di esplorare un territorio nuovo, di inventarsi come scrittrice senza essere imprigionata dalle aspettative della famiglia.

Nominarsi significare mettere radici dentro di sé ed è un antidoto potentissimo allo sradicamento – altro tema cardine della sua narrativa. Lo sradicamento, per Kincaid, non è un’eccezione ma la condizione naturale dell’uomo.

«Tutti proveniamo da un altrove e desideriamo sempre essere da un’altra parte rispetto a quella in cui ci troviamo»

La memoria delle migrazioni forzate attraverso l’Atlantico, il trauma della tratta e l’eredità coloniale si intrecciano quindi con una riflessione più ampia sul senso dell’abitare, sulle tradizioni e sul dilemma morale che nasce quando si tenta di fissarle come qualcosa di immutabile. La nostra casa è sempre in movimento, come lo è la nostra identità.

Nell’incertezza provocata dallo sradicamento costante, la scrittura – senza la quale l’autrice sostiene sarebbe «una barca alla deriva» – diventa allora lo spazio in cui permettersi di rischiare. Kincaid rifiuta la consapevolezza programmatica del proprio fare letterario: scrive proprio perché non sa esattamente cosa stia facendo e, in questo non sapere, riconosce sia la paura sia la gioia della creazione. Non c’è pubblico a cui rivolgersi, non c’è richiesta esterna da soddisfare: l’atto di scrivere nasce da un’urgenza personale, da una curiosità insaziabile.

«Scrivo perché so farlo meglio di quanto sappia pulire una stanza o badare ai bambini»

Lo afferma con ironia, ma dietro le battute si intravede una volontà di ferro. La curiosità, per Kincaid, si accompagna a una spiccata capacità di stare a proprio agio nel disaccordo. Non si tratta di gusto per la polemica, bensì della volontà di non accettare risposte che paiono insoddisfacenti. Essere “in disagreement” le permette di avere uno sguardo che attraversa i confini stabiliti, siano essi culturali, politici o linguistici. È questa stessa inclinazione che la porta a dichiarare senza esitazioni la propria delusione per l’America contemporanea, o a sostenere provocatoriamente che un altro modello di leadership – persino cinese – sarebbe preferibile all’attuale.

Persino il giardinaggio, grande passione dell’autrice che gli ha dedicato più di un libro, si inscrive in questa logica. Non coltiva il suo grande giardino di casa alla ricerca della bellezza, ma per potersi porre in dialogo con la storia, la geografia e con il nostro passato coloniale. Parole e semi hanno inoltre in comune la capacità di germogliare e di trasformare il terreno su cui cadono. E così l’opera di Jamaica Kincaid, nutrita dalla sua radicale curiosità e proverbiale indifferenza per il consenso e le convenzioni sociali, non offre risposte definitive ma un invito costante a interrogare il mondo, a nominarlo di nuovo, ad avere la forza – e la sfacciataggine a volte – di dissentire.