04 | 09 | 2025

Riparare incontrandosi

Comprendere la giustizia riparativa

Non è la giustizia tradizionale, non è retributiva, non si fa nei tribunali. La definizione di giustizia riparativa quasi sempre si dà per via di negazione, invece che per via affermativa. Quando invece si potrebbe dire: una giustizia basata sull’incontro, basata sulla relazione.

Di questo dialoga Verdiana Benatti con Marcello Bortolato, magistrato dal 1990, due volte membro delle commissioni per la riforma dell’ordinamento penitenziario. È un tema - Bortolato ne è consapevole - che suscita resistenze e che al tempo stesso non è una teoria fumosa che appassiona i cultori di giurisprudenza, ma legge dello Stato italiano, dall’entrata in vigore nel 2023 della Riforma Cartabia. Da allora, la giustizia riparativa è sempre applicabile: non in sostituzione, ma in parallelo – e in complemento – della giustizia cosiddetta tradizionale, e in contatto con la sua funzione rieducativa, che la nostra Costituzione è l’unica a sancire.

Il concetto sembra nuovo, ma non è che una riproposizione del più vecchio dei modi di risolvere i conflitti: all’interno della comunità, sotto lo sguardo di un membro più esperto del villaggio. Così, nelle pratiche di giustizia riparativa non c’è spazio per i giudici: il loro ruolo è quello di aprire formalmente la porta, ma poi restare fuori dalla stanza. Le persone coinvolte sono la vittima, il reo (o presunto reo, se ci si attiva prima del processo) e il mediatore, una figura «non equidistante, come sarebbe un giudice, bensì equiprossima» alle altre due, che lo guardano sedute allo stesso lato del tavolo.

È una situazione in cui le regole sono rigide: si parla a turno, non si interrompe, non si alza la voce. Qualsiasi cosa dica l’altra persona, si lascia finire e si prendono appunti. Eppure è una situazione nella quale si è liberi di uscire dai ruoli che la giurisprudenza impone, e di manifestare le emozioni che il tribunale esclude. Si può recuperare quella dimensione esistenziale che la sede del processo preclude non solo al reo, ma anche alla vittima.

La vittima, infatti, non è la beneficiaria del processo penale. Il massimo che le è concesso è costituirsi come parte civile per ricevere un risarcimento economico; ma il suo ruolo nel processo penale è quello di testimone. In altre parole, risponde alle domande, che spesso possono essere dolorose o imbarazzanti: si tratta del processo di vittimizzazione secondaria, che è tanto più pernicioso quando si parla di crimini legati al genere. Anche fuori dal contesto giudiziario, la vittima è condannata a quella che Agnese Moro ha chiamato «la tirannia del dolore»: a recitare eternamente la stessa parte, restare bloccata nella stessa postura.

Non c’è da confondere – Bortolato lo sottolinea bene – la giustizia riparativa con il perdono, il perdonismo, il buonismo. La giustizia riparativa non cancella il dolore, ma dà un’alternativa alla vendetta, e permette di affrontare il dolore reale, nella sua specificità. «Dietro il reato che la legge categorizza c’è un evento umano», che resiste alla sua lettura sintetica.

Attraverso l’incontro reale, la giustizia riparativa crea lo spazio per pensare un modo di rieducare che non passi per l’infliggere ulteriore dolore. Il suo presupposto è l’umanizzazione reciproca, l’immedesimazione.

Naturalmente si parla di un percorso difficile e doloroso. Per questo è sempre su base volontaria: «è per tutti», a prescindere dall’entità del reato, «ma non è da tutti». O almeno non è da tutti subito. A volte c'è bisogno di far passare del tempo, di riflettere e di prendere le distanze dagli eventi.

È un percorso apparentemente irrazionale, per i costi emotivi che implica. Ma, finora, sembra che tutti ne escano con degli strumenti in più; con un grande peso in meno, nel caso delle vittime, con una nuova consapevolezza, nel caso dei rei.

Quando l’organizzazione del Festival ha chiesto a Bortolato chi invitare come secondo ospite, lui – racconta – non ha avuto dubbi nell’indicare che si trattasse di qualcuno che ha sperimentato questo genere di percorsi: un reo oppure una vittima. «Non è un tema semplice da capire, e si capisce o vivendolo, o ascoltando direttamente le testimonianze». Per questo la sua scelta era ricaduta su Lorenzo Sciacca, che però purtroppo non è potuto essere presente. Bortolato dedica comunque tempo a raccontare la sua storia, resa famosa dal podcast Io ero il milanese, che lo stesso Sciacca ha realizzato insieme a Mauro Pescio. Rapinatore seriale prima, detenuto poi, venuto in contatto con la giustizia riparativa tramite la redazione di «Ristretti Orizzonti» della Casa di Reclusione di Padova, si è trovato libero dopo un abbuono inatteso e ha deciso di studiare e diventare mediatore.

È, per molti versi, un caso esemplare. Ma nei Paesi in cui la giustizia riparativa è una pratica ormai abituale e radicata, come il Belgio e l’Olanda, le statistiche tracciano correlazioni forti fra questa pratica e l’abbattimento del tasso di recidiva, che, com’è noto, in Italia è altissimo (fra il 60 e il 70%: quale farmaco somministreremmo con una success rate così bassa?).

(Rimane, al massimo, il dubbio sul bias di selezione: come in molte delle iniziative rieducative legate al carcere, i beneficiari sono spesso quelli che hanno già almeno qualche risorsa culturale o psicologica. Ancora una volta, la questione è anche di accessibilità).

Non mancano le digressioni sui precedenti illustri: da Giuseppe e i suoi fratelli nel Vecchio Testamento all’intuizione incredibile di Nelson Mandela di istituire una Commissione per la Verità e la Riconciliazione, che consentiva agli autori dell’apartheid di accedere al perdono dello Stato se avessero testimoniato rivelando l’intera verità dei reati compiuti, inclusi quelli non noti fino a quel momento. Un caso come questo mette al centro un altro elemento, in qualche modo originario, di una giustizia concepita in senso relazionale: quello della comunità, coinvolta e danneggiata dall’atto deviante così come dalla sua punizione. Una punizione, quella della privazione della libertà personale all’interno di un istituto detentivo, che ci sembra naturale e giustificata in sé stessa, e che invece ha poco più di duecento anni, e che prima dell’Illuminismo era inimmaginabile come oggi sembrano inimmaginabili le sue alternative.

Il cortile di Palazzo San Sebastiano è pieno, e al momento del dibattito non manca qualche resistenza. Sono reazioni prevedibili: «la giustizia riparativa è scandalosa» dice Bortolato «perché mette vittima e reo sullo stesso piano». Ma è solo su questo piano che è possibile l’incontro e quel riconoscimento dell’umanità dell’altro che è la premessa del cambiamento.

Si tratta, ancora una volta, di ragionare in termini di comunità. Non a caso, durante il dibattito intervengono anche dei membri del Laboratorio Nexus e funzionari dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Mantova, che hanno collaborato alla realizzazione degli eventi. Si costruiscono reti di relazioni anche così.