«La nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare» dice Milan Kundera, e Paulo Coelho afferma «Gli uomini sognano più il ritorno che la partenza». Ma allora perché ci si allontana? Perché si fugge?
Marco Petrovici, protagonista di Malbianco, si allontana: compie i “quattro passi indietro” di Wilde per osservare la propria realtà con distacco, come se fosse un quadro, senza rischiare di rimanere ingannato dal singolo dettaglio. Neela, di Acqua sporca, invece, è costretta a partire e desidera ridipingere totalmente la sua tela, cambiando la propria condizione, arricchendosi, come dice lei, per tornare nuovamente nella terra d’origine e viverla in maniera agiata, come un colono occidentale.
Mario Desiati e Nadeesha Uyangoda, intervistati da Giorgia Sallusti, presentano i loro nuovi romanzi, parlando di dispersione, alienazione, espatrio.
Lo “spatriato” non ha posto, non è rintracciabile, non può far parte della società e, di conseguenza, non esiste. A seguito di una migrazione la sua casa è solo un ricordo, costruito altrove e in modo instabile. Talvolta una prigione, talvolta un conforto, la casa diventa il microcosmo dell’esistenza estemporanea di un individuo che, quando tenta di riesumare il passato - essendo il tempo irreversibile - si imbatte in una prova impossibile: il ritorno.
«Sto tornando o sto andando a casa?» si chiede Uyangoda. Su tale domanda è basata l'intera narrazione: la protagonista, come tutti gli erranti, cerca di mantenere e, in certi casi, instaurare delle radici nel proprio luogo natale. Reclama la sua terra, rivendica di vivere dove non la si vede, non la si sente e, se, come dice Berkeley, esse est percipi, dove non è. Compie la κατάβασις, la discesa al mondo dei morti: il mondo che ricorda, ma che in realtà non c’è più.
In Malbianco si parla, al contrario, non del luogo dei ricordi, ma di conflitti, di quello che appare nei sogni e che conserva gelosamente tutti i traumi non solo della persona che li vive, ma del suo intero albero genealogico.
Ma il ritorno non è legato solo a un luogo geografico: riguarda anche il linguaggio, il sistema corporeo. A questo arriva Petrovici, motivo per cui si rivolge al dialetto, che, rispetto all’italiano, rievoca in sé le abitudini e le sensazioni di un posto, scolpendole in modo inconfondibile, indelebile nella mente.
Per Neela è diverso. Lei - diversamente dalla figlia, nata in territorio straniero - non conosce bene la nuova lingua, né riesce a comunicare. Soffre la distanza, privata della possibilità di relazionarsi si ritrova isolata e, dal momento che l’uomo è un animale sociale, rischia di perdere persino sé stessa: tutto nell’illusione di tornare nel non posto. Per questo Uyangoda dichiara di aver scritto il proprio libro con una “non lingua”: per dar voce a Neela, che ci parla proprio non riuscendo a dire nulla.
Sallusti chiede allora a che punto nelle storie raccontate finisca l’autore e cominci il personaggi. Desiati risponde citando Elsa Morante, per la quale uno scrittore, anche volendo, non riesce a dire la verità, mentre Uyangoda, sceglie di distinguere nettamente tra la propria biografia e le storie, utilizzando anche la componente della magia e del paranormale.
Sin dall’antichità si è andati alla ricerca di un nido, un luogo in cui collocarsi idealmente per potersi definire, persino quando si è sempre stati raminghi - come ne Il giovane Holden, in cui il protagonista sente la mancanza di una casa affettuosa, seppur mai conosciuta. Il νόστος, a partire dai poemi omerici e dalla Bibbia, è stato caratterizzato da un aspetto di insoddisfazione da parte dell'uomo a causa della sua impotenza dei confronti dello scorrere del tempo e dell’inevitabilità del destino. Tale concetto è rivoluzionato dall’Ulisse di Joyce, che lo trasforma in «lunga sventura accettata come parte essenziale dell’esistenza umana», individuando nel tentativo di ritorno da un lato l’alienazione dal mondo esterno e, dall’altro, l’angoscia di quello interno.
Ecco che, ad un punto della corsa, gli uomini perdono la propria direzione e si affannano per riavvolgersi nel proprio cordone ombelicale, spezzato nel momento stesso in cui hanno mosso il primo passo.