Andrea Pennacchi è un drammaturgo e un comico veneto, questo si sa. Quello che non sapevamo è che sarebbe potuto diventare pilota per Alitalia. Ma andiamo con ordine.
Se la rosa non avesse il suo nome è il suo primo romanzo giallo e il secondo libro che intreccia i destini di Pennacchi con quelli di William Shakespeare. Il titolo prende spunto dal celebre passo di Romeo e Giulietta in cui ci si interroga se l’essenza di una cosa sia indipendente dal suo nome, dall’etichetta che le appiccichiamo addosso. Lo ricorda bene anche Luigi Caracciolo, che conduce l’incontro e tenta di costruire un identikit inedito dell’autore inglese. Pennacchi, in effetti, Shakespeare non solo lo recita: in qualche modo lo venera. Perché, dice: «A differenza di molti altri è riuscito, nello sforzo titanico di rappresentare tutta l’umanità, ma senza schierarsi mai con una fazione o con l’altra». Shakespeare, insomma, è stato l’unico a consegnare a chiunque l’abbia frequentato — letterariamente — un “manuale dell’umanità”: senza giudizio, senza posa, con la sola e gigantesca ambizione di umanizzare anche il lato più oscuro, o almeno più scomodo, di ciascuno di noi. E questo, confessa Pennacchi, è stato prezioso anche nella sua biografia.
Prima di diventare attore e scrittore, infatti, Pennacchi ha frequentato un istituto tecnico per diventare pilota militare. Ma, racconta con ironia: «Fare il pilota mi piaceva. Essere un militare proprio no». E quando la vita ti mette davanti a uno specchio che riflette angolazioni inattese di te stesso, puoi solo prenderne atto: il castello crolla, e ricominci daccapo. Così Pennacchi si iscrive all’Università di lingue e, grazie a un docente di letteratura inglese «Vestito in tweed, tipicamente inglese. Era abruzzese» scopre Shakespeare. E capisce che la domanda presentata in Alitalia per diventare pilota civile è improvvisamente obsoleta.
«Shakespeare ha salvato me, ma ha anche evitato che Alitalia avesse un pessimo pilota».
Nel romanzo Se la rosa non avesse il suo nome, Pennacchi immagina uno Shakespeare dentro un giallo che ha una struttura dichiaratamente teatrale: atti invece dei capitoli. «Semplice» dice «Scrivere per il teatro è una cosa che faccio, che so fare. Ci pago il mutuo. Scrivere un romanzo è un’altra cosa». Un ringraziamento affettuoso all’amico e scrittore Antonio Pennacchi, recentemente scomparso, che lo aveva incoraggiato e sostenuto.
La gentilezza e l’onestà di Pennacchi ti permettono di seguirlo ovunque, anche nei territori più spigolosi, accompagnati dalla sua voce roca e dalle sue intuizioni brillanti e luminose, ma di una luce familiare.
Quando Caracciolo gli chiede: «Ha senso fare libri, film, arte, quando il mondo sembra andare a rotoli?», Pennacchi risponde con una delle immagini più potenti di Shakespeare, tratta dal Riccardo II.
Nella scena la regina Isabella, moglie di Riccardo, passeggia nel giardino del palazzo, angosciata: intuisce che il regno del marito sta cadendo, ma non conosce ancora tutti i dettagli. Entrano a quel punto i giardinieri, che discutono tra loro dello stato del giardino e del cattivo governo del re. Uno di loro propone di “rifare il giardino”: tagliare i rami morti, sradicare le erbacce, ristabilire l’ordine.
Pennacchi sorride:
«Fare libri, e arte in generale, è un po’ come rifare un giardino di una casa. Anche quando la casa è già crollata.»