Che corpo ha una parola? Il dialogo tra Chiara Carminati (scrittrice, traduttrice e poetessa) e Valeria Tron (scrittrice, cantante e artigiana del legno) mediato da Simonetta Bitasi, cerca di rispondere a questo interrogativo, muovendosi tra la musica, la poesia, l’oralità e l’importanza della memoria.
Nelle parole di Tron, «siamo miniera»: ognuno di noi ha una «borgata che ci portiamo dentro», che per essere scritta deve essere faticosamente scavata. Un inabissamento che, come afferma Carminati, è fondamentale al processo di scrittura e di limatura del restituito. Come sottolineato da Bitasi, l’opera di entrambe le autrici trasuda l'importanza della memoria, e della restituzione alla comunità come atto storico e politico.
Per Carminati questo si concretizza in un’approfondita ricerca di archivio, come per il romanzo Nella tua pelle, che racconta le storie di due bambini cresciuti nell’Istituto per i figli della Guerra di Portogruaro, creato per accogliere bambini nati da violenze subite da donne nel corso della Prima Guerra Mondiale; per Tron invece è il ritorno ad una «lingua di terra», alla cultura orale del patois e alla ricchezza custodita nella memoria vivente di una comunità, che impregna i suoi romanzi L’equilibrio delle lucciole e Pietra dolce.
Per entrambe, scrivere richiede abbandono: il distacco dall'individualità della storia che si vuole narrare, per arrivare al distillato essenziale che le conferisce universalità. L’importanza della narrativa risiede quindi nella capacità di riassemblaggio del residuo di una storia vera che, una volta separato dalla sua temporalità, diviene veramente libero di poter comunicare.
La ricerca delle autrici sembra quindi quella di restituire un corpo alla parola: un'esplorazione profonda della materialità e del peso fisico del testo. Attraverso la traduzione, ad esempio, si raggiunge una consapevolezza nuova sul rapporto tra forma e significato e sulla comunicabilità della parola. Il contatto con la musica invece, fondamentale per entrambe le autrici, è l'apertura di un canale nuovo, immediato, che dona un mezzo non-verbale di esplorazione della potenza della parola. Canto e parola sono fuse nella prospettiva di Tron: il canto diviene mezzo per lo "svestimento" necessario al narrare. Spogliarsi è quindi nuovamente un processo di fusione, nella ricerca di una voce universale e comunicativa, cui si può arrivare non solo attraverso il canto, ma anche attraverso la poesia, che illumina e rende visibile la dimensione sensoriale della parola, o il lavoro artigiano, che con la sua concretezza ci ricorda l’importanza della tangibilità. Come il minatore, che scava e si adatta al buio, invisibile in un sottosuolo.
Una volta però che ci si è svestiti, resi materiali, è necessario filtrare e restituire. Per chi scriviamo? Che senso ha ciò che si scrive? Per entrambe le autrici queste domande non possono prescindere da una dimensione politica. La scrittura permette di lasciare una traccia, e il suo obiettivo deve comprendere la creazione e conservazione di una dimensione collettiva (così importante per la tradizione orale) perché è attraverso la creazione di un coro che una memoria può conservarsi. Scavare quindi, per poter trovare; fondersi nell’abisso della materia per poter arrivare, finalmente, a quella traccia profonda che ci ricorda chi siamo.