06 | 09 | 2024

Sylvia Plath era (solo) triste?

Con Sara Marzullo e Vincenzo Latronico mettiamo in discussione gli stereotipi con cui autrici e autori vengono ricordati.

Quando il nome di Sylvia Plath fa la sua apparizione all’interno di una conversazione genera una sorta di imbarazzo, remora nel parlare di un personaggio noto quasi più per il mito che avvolge la sua reputazione che per la propria produzione letteraria. È questa la premessa che ha dato il via al confronto tra Sara Marzullo, giornalista culturale e autrice di Sad Girl. La ragazza come teoria (66thand2nd, 2024), e lo scrittore Vincenzo Latronico, attorno all’immortale figura di Plath, il cui destino rispetto alla critica e il successo letterario la avvicina a numerose altre autrici.

Marzullo, che ammette di nutrire questo sentimento ambivalente nei confronti della scrittrice, mette in luce come Plath sia divenuta a tutti gli effetti l’archetipo della vittima, di se stessa innanzitutto e della società, incarnando forse per prima e nella maniera più assoluta il modello della Sad Girl. Se per certi versi nelle sue opere e nei trascorsi biografici si può trovare conferma a questa interpretazione, è inevitabile che l’etichetta risulti limitante e stretta su un’autrice che - si potrebbe aggiungere come qualunque altro individuo complesso e pensante - racchiude nelle proprie opere di narrativa e diaristica una sfaccettatura di emozioni che esulano dalla malinconica tendenza per cui è ricordata.

Parlando de La campana di vetro nei termini di un romanzo dal forte contenuto politico, associabile a 1984, parlando anche di Daddy (dove Sylvia Plath accosta la figura del padre a quella di Hitler) come di una lirica provocatoria e spiritosa, Marzullo e Latronico forniscono prontamente due esempi di questa complessità, liberando Plath dalla gabbia che anni di appiattimento concettuale le hanno costruito attorno, anni che d’altra parte le hanno conferito la fama di cui gode oggi.

Risulta infatti difficile mettere in discussione, smontare e ripensare un personaggio tanto affermato quanto amato, in cui il pubblico è abituato a cercare qualcosa che ormai conosce e apprezza, e forse - ipotizza Marzullo - Sylvia Plath non sarebbe così amata se si compisse questo sforzo. Questo è un rischio che riguarda ogni autore (viene citato, tra gli altri, Kafka) e ogni autrice, dal momento che molti nomi appaiono adesso sugli scaffali delle librerie per la prima volta. E tale delicato processo di riscoperta è ancora in fieri.

Lasciare che Joan Didion, Annie Ernaux, Elsa Morante, divengano autrici ricordate e stimate in virtù di qualcosa che non sono, o non sono del tutto o non soltanto, per fare di loro “madrine”, grandi nomi da spendere e venerare, non sarebbe corretto a livello letterario. Il discorso è diverso quando è la nostra stessa percezione verso l’autore o l'autrice a condizionarci, quando forse è il nostro punto di partenza, personale, culturale, a portarci a un’inconsapevole rigidità di pensiero.

L’invito che raggiunge gli spettatori, a evento concluso, è di partire sempre dai libri, dalle parole, e cercare lì e lì solamente il materiale su cui fondare i propri miti, se di questi siamo alla ricerca. Una rilettura estiva de La campana di vetro potrebbe rivelare qualcosa su Sylvia Plath che - sembrerebbe impossibile - non era ancora stato detto, che non necessariamente coincide con quello che tutto il mondo dice e sa (o pensa di sapere).

L'intervista di Sara Marzullo con la redazione di Festivaletteratura

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