«Sono grato che i miei libri parlino in italiano, una lingua che diventa la mia voce». Ocean Vuong apre così il secondo incontro a Festivaletteratura, riconoscendo all’italiano una funzione quasi oracolare: è la lingua che ha dato parola ad alcuni dei suoi autori più amati — Oriana Fallaci, Primo Levi, Pier Paolo Pasolini, Amelia Rosselli — e che ora restituisce la sua opera a un nuovo orizzonte di lettura. Non si tratta solo di trasposizione lessicale, ma di metamorfosi: un’altra pelle che custodisce le stesse cicatrici.
Proprio le cicatrici, infatti, sono al centro della riflessione di Vuong. Lo scrittore prende le distanze dall’etichetta dei trauma studies. Non gli interessa raccontare il trauma, ma la violenza. Il trauma riguarda chi lo subisce, la ferita che resta; la violenza invece rimanda alla foce, al gesto che la produce. Parlare di violenza, invece, significa interrogare la matrice, risalire alle origini: che provengano da un esercito, da un ordine presidenziale, da una politica di Stato.
In questo senso il suo lavoro non vuole essere ridotto a testimonianza. Non aggiunge una voce al catalogo del dolore, ma interroga il dispositivo che lo genera. È una genealogia della violenza, più che una memoria del dolore. Non è un caso che Vuong evochi Dante: il viaggio interiore, qui, coincide con il racconto dell’esilio. Come Dante scende agli inferi per ritrovare una lingua, così lo scrittore figlio di profughi vietnamiti affronta il sottosuolo della storia americana per sondare più a fondo la memoria, il linguaggio e ciò che resta nascosto tra le pieghe della Storia.
Scrivere la violenza significa allora decifrarne l’anatomia, mostrarne la continuità storica — dall’Iliade a Dante, fino al presente — e al tempo stesso, ampliare lo spazio dell’esperienza, renderlo dicibile. Perché, dice Vuong, quando hai le parole per descrivere il tuo mondo, il tuo mondo si espande.
Per Vuong, la lingua non è mai neutra: è uno strumento di rinascita, capace di trasformare le ferite personali e storiche in materia condivisa. Già in Cielo notturno con fori d’uscita e in Brevemente risplendiamo sulla terra si coglieva come la scrittura fosse inseparabile dalla cicatrice, come l’atto letterario nascesse sempre da una lacerazione. Oggi, in L’imperatore della gioia, questo gesto si fa ancora più radicale: scrivere diventa un attraversamento, non più solo autobiografia trasfigurata, ma incontro di due solitudini. Da una parte c’è Hai, un giovane che ha perso l’orientamento e sta per suicidarsi; dall’altra Grazina, un’anziana vedova lituana sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, con una memoria fragile e segnata dai traumi del passato. Nel loro dialogo non c’è consolazione, ma deviazione: la possibilità di cambiare rotta senza sapere dove si approderà.
Al centro dell’opera di Vuong c’è sempre un rimando alla figura materna - in questo caso incarnata da Grazina - non come motivo laterale, ma come nucleo viscerale, da cui la sua scrittura sembra continuamente ripartire. La relazione tra Little Dog e la madre, già in Brevemente risplendiamo sulla terra, non è un semplice rapporto filiale, ma un laboratorio emotivo e linguistico in cui si misura la possibilità stessa di crescere dentro una genealogia spezzata.
Vuong è stato cresciuto soltanto da donne. In quella casa popolare del Massachusetts, la madre, la zia, la nonna compongono una costellazione affettiva segnata da una tensione quasi shakespeariana: figure insieme protettive e vulnerabili, depositarie di un potere assoluto nello spazio domestico e, al tempo stesso, soggiogate nel mondo esterno. In questo paradosso — la forza che regge la casa e la fragilità che la espone al mondo — si inscrive la sua riflessione sulla maternità. Tra Vietnam e Stati Uniti, due patriarcati opposti ma convergenti disegnano lo sfondo di questa esperienza. È nella tensione tra il potere femminile esercitato tra le mura domestiche e la subordinazione imposta dalla società che Vuong individua uno dei nodi più fertili della sua scrittura.
Aggiunge, incalzato dalle domande di Silvia Righi, che l’essere cresciuto in una famiglia di donne non ha inciso soltanto sui temi, ma anche sulla forma stessa della scrittura: il ritmo spezzato delle frasi, la loro vibrazione emotiva, la loro tensione verso un margine. «Language is the ultimate technology», ricorda.
Ciò che ne scaturisce non è un messaggio rassicurante, ma un campo di tensione: la scrittura come tentativo di interrogare il bene, laddove il bene è sempre incrinato, sfuggente, contaminato. Per Vuong, il linguaggio non è mai superficie levigata, ma strumento da lavoro. Non un pennello né una penna elegante: una pala. Scrivere significa scavare, fendere il terreno.
Di solito immaginiamo l’autore come il venditore al banco: il libro esposto come merce, la voce che convince, il gesto che invita. Vuong sovverte questa retorica mercantile: il lettore, dice, non è di fronte, ma dietro. Non osserva il prodotto finito, ma la nuca sudata dello scrittore che scava. E nell’atto stesso di osservare si unisce a lui, partecipa alla fatica: non spettatore ma complice, non cliente ma co-minatore. L’esperienza letteraria, allora, non è consumo, ma condivisione di sorpresa: scoprire insieme che cosa giace sotto la crosta del mondo.
In questo senso, si spiega anche cosa intende quando afferma che la poesia è la possibilità di spingere le parole fino all’estremo, verso il limite della scogliera oltre il quale si apre l’abisso: ridurle alla loro forma più granulare, molecolare. È un modo di scrivere che si avvicina al sogno, alla sua logica interna di frammenti e metamorfosi. Per questo non ha senso fissare confini rigidi tra poesia e prosa: Melville, nota Vuong, ha scritto più poesia di Whitman. Ciò che conta è la manipolazione radicale del linguaggio, fino al punto in cui ogni trasformazione diventa possibile.
La poesia è anche conoscenza: ha una valenza gnoseologica, permette di accedere non solo a sé ma all’altro. Al centro di questa dinamica c’è il desiderio. Per Vuong il desiderio è il cuore stesso della vita, la via più diretta per conoscere qualcuno: chiedere a una persona che cosa vuole nella vita. Non il tocco, ma il gesto che protende verso l’altro è la forma più autentica di contatto. Qui riecheggia Roland Barthes, per il quale il desiderio non coincide mai con il possesso, ma con la tensione infinita verso l’oggetto amato, con la scrittura come campo in cui ciò che manca diventa produttivo. L’arte, in questo senso, non è l’incontro ma il movimento verso: una tensione, una proiezione. È ciò che spera di realizzare come scrittore.