Se siete abituati a pensare a Mantova soltanto come città d’acqua e di palazzi, con i Gonzaga e i loro fasti che si specchiano nei laghi, se avete passeggiato tra le piazze brulicanti di lettori durante i giorni di Festivaletteratura, ma non vi siete mai avventurati oltre le mura, allora vi manca un tassello fondamentale dell’esperienza. È quello che abbiamo fatto noi, in una mattina di settembre, quando l’aria era ancora fresca e leggera: una passeggiata naturalistica guidata da Valentina Gottardi e Maciej Michno, insieme alla voce esperta della guida ambientale Corrado Benatti.
Partenza da Porta Giulia, il varco che immette fuori dalla cittadella, e subito il ritmo cittadino scivola via. Davanti a noi il sentiero si inoltra nel bosco che si apre lungo il Mincio, un intreccio di larici e pioppi che custodiscono ombre fresche e fruscii. È un camminare lento, pensato per i bambini e i genitori che li accompagnano, ma che incanta anche i più grandi. Ci fermiamo ad osservare i segni discreti della vita che abita questi luoghi: le tracce di volpi e lupi, le tane, i passaggi consumati dall’andirivieni invisibile. E ancora i pertugi scavati dai picchi, dove il nutrimento viene nascosto tra le cortecce.
Le guide ci invitano a usare i sensi: tendere l’orecchio ai cinguettii nascosti nella chioma, inspirare a pieni polmoni il profumo delle felci e dei fiori che punteggiano il sottobosco. La città sembra lontana, eppure è a un passo. Superata la fitta vegetazione, lo sguardo si apre: il Lago di Mezzo si distende davanti a noi, uno specchio d’acqua che riflette come in un gioco di illusioni le sagome di salici e pioppi che nascondono il profilo urbano.
E lì, proprio sulla superficie, scopriamo una prateria galleggiante di ludwigia grandiflora, un tappeto verde costellato di fiori gialli che sembra sospeso tra acqua e aria. È un paesaggio insolito, quasi segreto. All’improvviso, una gallinella d’acqua si alza in volo, una cornacchia grigia taglia il cielo, un bruchetto peloso si arrampica lento su una foglia. Piccoli segnali di una vitalità che scorre silenziosa accanto a noi.
Poco oltre, l’acqua comincia a raccontare a modo suo. Nuvolette di fango salgono dal fondo, segno della presenza discreta delle carpe che smuovono i sedimenti. Camminiamo piano, scrutando ogni dettaglio: anche senza vedere direttamente gli abitanti del bosco, ci sono tracce che parlano di loro. Bruchi farfallina si arrampicano sulle superfici vegetali e Corrado Benatti ci mostra come riconoscerli dal lavoro che lasciano dietro di sé: foglie intagliate, rosicchiate, piccoli arabeschi naturali incisi nel verde.
La curiosità cresce e con essa gli sguardi dei bambini che si accendono, rapidi e vivaci, da un lato all’altro del sentiero. È Enea a interrompere la passeggiata: ha notato una libellula rossa, la afferra con delicatezza e la mostra con orgoglio alle guide. Ed è a quel punto che Valentina Gottardi raccoglie l’occasione: poggia l’insetto su un tronco, estrae dalla borsa matita e penna e invita i più piccoli a imitarla.
«Per disegnare la natura bisogna osservarla e conoscerla», spiega. La libellula, ferma come un modello silenzioso, diventa la protagonista: «Guardate il torace, le ali: sono simmetriche, perfette». I bambini la seguono, chini sui fogli, tracciando linee leggere che provano a restituire il mistero dell’insetto. In quel momento, la passeggiata si trasforma in laboratorio: lo sguardo diventa attenzione, il gesto diventa conoscenza.
Corrado apre lo zaino e ne estrae un piccolo tesoro: piume di fagiano e di albanella. Le mostra ai bambini, che le toccano con cautela, stupiti dal gioco di colori e consistenze. Ogni piuma è un indizio, un segno di presenza, come una parola lasciata scritta nell’aria dagli animali che abitano il bosco.
La seconda tappa ci porta davanti a un salice bianco morto. L’albero, svettante e ormai privo di vita, è puntellato da decine di buchi. Corrado ci invita ad avvicinarci: sono i segni lasciati dal picchio rosso maggiore e da altri uccelli che hanno trasformato quel tronco in rifugio. «Sembrano ruderi», spiega, «ma sono in realtà grattacieli di vita: anche da morti, gli alberi continuano a ospitare e nutrire». I bambini osservano, qualcuno prova a infilare un dito nelle cavità, e subito ne esce un piccolo scroscio di meraviglia collettiva.
La passeggiata continua, lenta e attenta, finché il bosco si apre e ci accompagna verso il Lago di Mezzo. Davanti a noi, sull’acqua ferma, alcuni tronchi galleggiano come pontili improvvisati. Sopra si posano germani reali, cormorani intenti ad asciugarsi le ali, e perfino grosse tartarughe che emergono placide al sole. Lo sguardo, spostato più in là, coglie la sagoma di Mantova dall’altra parte del Mincio: torri, cupole e mura che sembrano sospese, come se la città fosse un miraggio che veglia silenziosa sul suo fiume.
Il cammino si conclude proprio lì, tra acqua e città, con gli occhi ancora pieni di immagini e le tasche colme di piccole scoperte: piume raccolte, schizzi su fogli stropicciati, il ricordo di una libellula posata per qualche istante. Ma più di tutto resta l’idea che la natura sia un libro aperto, fatto di segni che impariamo a leggere solo se qualcuno ci insegna a farlo.
Le parole delle guide hanno trasformato alberi, insetti e piume in tracce di storie, hanno mostrato che ogni bosco, anche a due passi da casa, è un ecosistema delicato che ci parla del passato e del futuro. È così che l’esperienza diventa educazione: imparare a osservare, a nominare, a rispettare i luoghi che ci circondano.
E in giornate come questa, tra il verde del Mincio e l’orizzonte di Mantova, si intuisce quanto sia urgente trasmettere ai più piccoli – con la leggerezza del gioco e del disegno – la consapevolezza dei luoghi. Un’eredità fatta di paesaggi, suoni e profumi che, se custoditi, restano vivi come un racconto che non smette mai di farsi ascoltare.