Tre pensatrici femministe, Annarosa Buttarelli, Maria Nadotti e Lidia Ravera, ci parlano della figura e del pensiero di Susan Sontag in modo asistematico, come asistematica è stata la sua opera.
Sontag - ricorda Ravera - è stata una figura di intellettuale a tutto tondo e per questo non incasellabile: pensatrice (sicuramente), narratrice (ma non era nelle narrazioni che dava il meglio), polemista (perché non era piaciona), attivista (perché si interessava della situazione del mondo). L’ultima grande star della letteratura americana: un’icona forse già in vita, per quanto non curasse affatto la sua immagine pubblica e fosse sempre elusiva sulla sua vita personale. La pubblicazione postuma dei diari (editi in Italia da Nottetempo con i titoli di Rinata e La coscienza imbrigliata al corpo) è stata una scelta del figlio David Rieff che non le sarebbe piaciuta. Lei è stata capace di scrivere un libro sul cancro senza dire di averne uno.
Benjamin Moser in Sontag. Una vita, la sua biografia dell'autrice, ha scritto di come lei abbia «riassunto la sua epoca», definendo i termini del dibattito culturale per decenni. Ha individuato la proposta di Sontag su come possa vivere un individuo, una donna, una donna omosessuale. E, negli scritti sulla malattia, su come un individuo possa prepararsi a morire.
Sontag, dice Ravera, stimola inevitabilmente altrui. «Non si può leggere Sontag senza avere voglia di scrivere». La scrittura per lei prese la forma dell’impegno di tutta la vita: giornate di lavoro indefesso, senza pause, senza mai «poter dire una sciocchezza». La forma del taccuino le era congeniale perché era quella di chi si considera per sempre studente, e che considera la propria materia tutto. Americana (californiana!) ma profonda ammiratrice della cultura europea: Buttarelli sottolinea questo dualismo sempre presente nel suo pensiero. Nata nel 1933, ha attraversato il camp, lo ha teorizzato, si è mossa fra la cultura alta e quella popolare, ha scritto di essere «una vagabonda fra sogno e realtà». Ma alla fine, dice Buttarelli, «era una grande affamata di realtà. Aveva un bisogno quasi mistico di avere l’urto continuo con la realtà. Cosa non semplice da vivere né da pensare».
Un rapporto con l’esperienza che ci porta a tracciare linee ideali fra lei e Simone Weil, e che nel 1993, durante l’assedio di Sarajevo, la portò a sperimentare quel collasso del pensiero politico che Nadotti associa a quello che oggi avviene, per molti, di fronte al genocidio del popolo palestinese. Sontag, che non reputava il coraggio una qualità ma semplicemente una caratteristica e che non temeva di rischiare la vita per la difesa della cultura, partì per Sarajevo e visse sotto assedio per sei mesi, mettendo in scena con gli attori del Teatro Nazionale un Aspettando Godot. La piazza davanti al Teatro oggi è dedicata a lei, e fa una figura migliore rispetto al sottopassaggio periferico che le ha dedicato la sua città d’elezione, Parigi.
La riflessione su una figura del genere non può essere convenzionale, e Nadotti e Ravera, chiamate a portarla avanti oggi a Mantova, trovano i loro modi. Ravera in particolare legge un proprio omaggio, che racconta il proprio rapporto anche biografico con i testi di Sontag. Il modo in cui mettersi in dialogo con un’intellettuale del passato può essere «come aprire una finestra nel buio». Nadotti sceglie di mostrare al pubblico la sua presenza di scena, proiettando il video di una conversazione avvenuta nel 1983 fra lei e il critico d’arte John Berger, frutto di un cambio di programma: i due avevano deciso all’ultimo momento di annullare i rispettivi seminari e discutere insieme dell’uso strumentale della fotografia. Erano i tempi della guerra del Vietnam. Nadotti fa notare al pubblico come i due abbiano atteggiamenti diversi – la dolcezza di Berger, che un giorno definirà Sontag quick silver, argento vivo; la durezza di Sontag, che non voleva piacere agli altri e cercava uno scambio di pensiero – ma condividano chiaramente il piacere di avere trovato un interlocutore al loro livello. Per ballare bene il tango, nota Ravera, bisogna essere bravi tutti e due. «Spesso il problema degli e delle intellettuali di oggi è proprio questo» osserva ancora Rivera: «la mancanza di interlocutori adeguati».
La durezza di Sontag trovava motivazione nella sua concezione molto seria del ruolo dello scrittore. A questo proposito Nadotti riprende una poesia, Who would we be?, che vale la pena di tradurre almeno in parte:
«Uno scrittore, secondo me, / è qualcuno / che presta attenzione / al mondo. // Questo significa / provare / a capire / ad accogliere, a connettersi con // l’atrocità / di cui gli esseri umani / sono capaci / e non esserne corrotti ─ // né resi cinici, / superficiali – / da questa comprensione. / La letteratura può dirci // com’è fatto / il mondo. […] // La letteratura può allenare / ed esercitare / la nostra capacità di piangere / per quelli / che non siamo noi né sono dei nostri. // Chi saremmo / se non potessimo provare compassione / per quelli / che non siamo noi né sono dei nostri?»
Comprendere chi non è dei nostri è quello che ha fatto Susan Sontag quando, a lei come ad altri intellettuali, è stato chiesto dal The New Yorker di scrivere un commento a caldo sull’attentato alle Torri Gemelle. Discostandosi dalle narrazioni diventate dominanti che tacciavano di codardia l’atto degli attentatori, Sontag puntualizzò che la codardia non c’entra nulla e invitò a contestualizzare il gesto, analizzarlo, comprenderlo - e comprendere le colpe degli Stati Uniti nel contesto mondiale. Per Sontag i compiti dello scrittore erano «amare le parole, disperarsi sulle frasi, prestare attenzione al mondo». Il mondo intellettuale italiano deve ancora accorgersene, osserva Nadotti, ma provare a cambiare il mondo col proprio pensiero non è un’attività di serie B.
Nel 2001, Sontag vinse il premio Gerusalemme. Come tutti i grandi scrittori quando sono arrabbiati, valutò l’opportunità di non presentarsi alla cerimonia; come alcuni, decise che valeva la pena di andare a Gerusalemme per dire quello che aveva da dire. E infatti nel suo discorso, ragionando sui vincitori precedenti del premio, disse quello che pensava: «Una cosa è […] partecipare al dibattito pubblico e all’azione pubblica. Un’altra produrre opinioni, soundbites moralistici, su richiesta. […] Uno scrittore non è un jukebox. Il primo compito di uno scrittore non è avere opinioni, ma dire la verità. […] L’essenza della saggezza che offre la letteratura […] è aiutarci a capire che, qualsiasi cosa succeda, sta sempre succedendo qualcos’altro. Io sono ossessionata da quel qualcos’altro».
Poco dopo fu chiamata a tenere un discorso a Houston al conferimento del Premio Oscar Romero a Ishai Menuchin, rappresentante del movimento Yesh Gvul («C’è un limite» o anche «un confine») dei soldati israeliani che rifiutavano di servire nel Libano. Verso la fine del discorso, che riprendeva i principi di Norimberga, disse:
«La probabilità che i vostri atti di resistenza non bastino a superare l’ingiustizia non vi esenta dall’agire nel modo che, sinceramente e dopo averci ragionato, crediate sia nell’interesse della vostra comunità. Dunque: non è nell’interesse di Israele essere un oppressore. Dunque: non è nell’interesse degli Stati Uniti essere una superpotenza, capace di imporre la sua volontà su ogni Paese del mondo a suo piacimento. Il vero interesse di una comunità moderna è la giustizia. Non può essere giusto opprimere e limitare sistematicamente un popolo vicino. È sicuramente falso che omicidi, espulsioni, annessioni, muri – che contribuiscono a ridurre un’intera popolazione alla dipendenza, alla povertà e alla disperazione – porteranno sicurezza e pace agli oppressori. Non può essere accettabile che un Presidente degli Stati Uniti sembri convinto di avere il mandato di essere Presidente del pianeta, e che dica che quelli che non stanno con gli Americani stanno con “i terroristi”».
Era il 2003.