«Oltre il possibile c’è ancora il possibile. Non c’è nient’altro». Così esordisce Chiara Valerio rispondendo alla prima domanda delle ragazze del Blurandevù. Un inizio dirompente, così come dirompente e spiazzante è ogni parola che esce dalle sue labbra: un cervello che corre su binari diversi, e chiaramente più veloci, di quelli dei comuni mortali.
Il Museo Diocesano si riempie a vista d’occhio, un pubblico gremito, per ascoltarla. Un dialogo che attraversa temi molteplici, durante il quale Valerio è riuscita a mescolare ironia e serietà, scherzo e riflessione profonda.
Partendo da Nessuna scuola mi consola (Einaudi, 2009) ha tracciato un autoritratto che è un elogio della scuola come luogo di formazione: «la scuola è la certezza, è essere sicuri di essere accolti», «è trovare sé stessi»; a scuola, finalmente «ero io e potevo stare insieme ad altri che erano loro». Riscoprire il valore della scuola come luogo di condivisione, di crescita, spazio di espressione personale e di formazione dell’identità, è fondamentale per una donna che, per sua ammissione, dalle scuole è stata cacciata a forza dopo il secondo dottorato. Una riflessione che si amplia e arriva a toccare il sistema e le strutture patriarcali, la necessità di ripensare quegli spazi, per mettere al centro la responsabilità civile e sociale del mestiere dell’insegnante, l’incontrovertibile importanza che gli insegnanti ricoprono nella vita dei loro alunni e che spesso viene messa da parte. C’è dell’acredine nelle parole di Valerio quando afferma quanto sia sbagliato considerare l’insegnamento una diminutio rispetto a una vera realizzazione professionale, o un “mestiere da donne” a cui i “veri uomini”, i “veri professionisti”, non dovrebbero abbassarsi: a queste parole la sala esplode in un applauso.
Quasi citofonato allora il richiamo a L’attimo fuggente: l’autrice capovolge la prospettiva e trasforma la domanda, spingendo a notare come verbi quali immolarsi e asservirsi non dovrebbero essere utilizzati per descrivere il mestiere dell’insegnante; meglio piuttosto aiutare, accompagnare, sostenere gli studenti in quel percorso di auto-determinazione che si compie proprio nelle aule scolastiche. Il professor Kipling, dice Valerio, altro non è che la voce del dubbio, è colui che spinge a mettere in discussione tutto, che non accetta alcun ipse dixit preferendo, a questo approccio, il libero pensiero.
E dalla scuola si passa al linguaggio: più volte Valerio cita en passant Wittgenstein, senza per questo trasformare lo scambio in una lezione. Al contrario, senza porsi in cattedra, senza sovrastare le giovani intervistatrici, Valerio le porta a mettere in discussione le loro certezze, le guida verso direzioni inaspettate, a una velocità che stupisce l’uditorio tutto: una nuova professoressa (o professora? Conoscendo la sua attenzione alla tematica, sarebbe interessante chiederglielo) Kipling, a cui le intervistatrici rivolgono l’ormai classico «Capitano, mio capitano!», alzandosi in piedi sulle sedie.
E la nuova Kipling ragiona anche di vittoria e di sconfitta, di come accettare il fallimento per non lasciarsi trascinare nel baratro; attraverso Chi dice e chi tace (Sellerio, 2024) e la sfiorata vittoria al Premio Strega, e attraverso la relazione con l’altro, che può, a volte, diventare una lotta, uno scontro con vincitori e vinti.
Scrittrice, certo, ma matematica di formazione, afferma con forza che «la letteratura e la scienza non sono mondi separati». E continua: «Non li ho mai pensati come separati, non li ho mai vissuti come separati e voglio dire anche che non sono separati. Servono e sono strumenti strutturati per una descrizione del mondo a diversi ordini di grandezza: la scienza può descrivere, la matematica e le matematiche, la fisica e la chimica possono descrivere accuratamente la realtà a ordini di grandezza che sono diversi da quelli dei metri, dei secondi, delle ore, dei chilometri e delle lunghezze e le quantità che servono a noi, che competono all’esperienza umana e quotidiana. La letteratura invece ha un ordine di grandezza che si occupa dell’umano, delle misure dell’umano». E per questo mette in guardia dall’uso di metafore e analogie tratte dal mondo scientifico, che rischiano di confondere i piani, paragonando gli esseri umani a singole particelle; noi non siamo particelle, siamo piuttosto agglomerati di particelle, per cui le leggi esplorate dalla fisica non sempre valgono in maniera incontrovertibile. C’è qualcosa, prosegue, «che abbiamo “formalizzato” attraverso la matematica, che ci spinge a credere che, da qualche parte, qualcuno ci stia ascoltando, stia prestando attenzione al nostro agire e ai nostri movimenti nel mondo… Ma non sempre è così. Anzi, forse meglio convincersi del contrario». Parole schiette e dirette che sembrano mettere in dubbio la possibilità di fidarsi e affidarsi agli altri.
Valerio però concede uno spiraglio di speranza, e in che modo se non attraverso il dialogo? «Le cose vanno dette anche quando sono eccessive e anche quando sono parziali […] Io preferisco sempre quelli che parlano»: descrizione dei rapporti umani che porta al centro la parola, la necessità di non lasciare non detti perché «il silenzio consente farneticazioni», mentre parlare è creare vere connessioni, diviene un modo per superare l’empasse della distanza e costruire relazioni durature.
E cos’è l’amore, per Chiara Valerio? Un abbaglio, verrebbe da rispondere. Il proiettare sull’altra persona i propri desideri e le proprie aspettative, il riversare, annegare, seppellire l’altra persona sotto i propri desideri e le proprie aspettative. L’altra persona perde i propri contorni, e allora, proprio come Vittoria in Chi dice e chi tace, non è più particolarmente rilevante: ciò che conta è ciò che Lea proietta su di lei, ciò che può scoprire di sé ripensando quella relazione sfiorata, mancata, mai concretizzata. Un’immagine agrodolce ma che risuona in chi la ascolta: l’amore come forza creatrice che spinge a cercare in sé stessi le risposte alle proprie domande, a indagare i segreti nascosti dentro di sé. È strano sentir parlare di amore e di definizione di sé come di un giallo, o di un thriller, ma nelle parole di Valerio tutto sembra possibile. Dopotutto, oltre il possibile c’è ancora il possibile.
Nel contesto del Festival, è impossibile non parlare di letteratura, e lo spauracchio del Canone, quello con la C maiuscola che include qualcuno ed esclude qualcun altro, è dietro l’angolo: ma per Valerio, un canone non esiste. Ricorda di essere cresciuta in un paese senza librerie, dove il Canone non trovava posto, dove non c’erano librai "illuminati" pronti a indicare ai giovani la via della “vera letteratura”; al loro posto, il giornalaio Ennio, che accanto a Dostoevskij teneva le rivistine porno, e che considerava Topolino alta letteratura. Per questo, commenta Valerio, «non ho letture inconfessabili», «non mi sono mai vergognata di leggere un libro». Un invito non esplicito ma chiaro a non vergognarsi di nulla, a leggere qualsiasi cosa: parole necessarie, in particolare da rivolgere ai più giovani. Avvicinatevi alla lettura, sembra dire Valerio, leggete ciò che volete ma leggete, fate entrare i libri nella vostra vita e troverete una vostra via, una vostra strada verso la letteratura. Decostruire il Canone attraverso Topolino, quindi.
E cosa consegnerebbe agli alieni? Quale libri porterebbe “verso l’infinito e oltre”? Lo scimmiotto, di Wu Ch’êng-ên, e l’Odissea: perché in quel libro si trova qualcosa che accomuna tutti, anche oltre i confini del pianeta; perché «il desiderio di tornare a casa rimane saldo anche quando a casa non ci si torna».